In seconda media a tutti noi è stato insegnato l’algoritmo che consente di estrarre le radici quadrate. Quasi tutti noi l’abbiamo poi, molto giustamente, dimenticato. Comunque da ragazzi sapevamo per esempio calcolare le cifre decimali della radice quadrata di 2, e con un po’ di pazienza ottenerne quante ne volevamo. Così potevamo trovare che la radice quadrata di 2 = 1,4142135623…, e constatare che le cifre decimali di radice quadrata di 2 si susseguono senza alcuna periodicità, ovvero che radice quadrata di 2 è un numero irrazionale. L’irrazionalità di radice quadrata di 2 fu acquisita nell’antichità, quasi certamente nell’ambito della Scuola Pitagorica, con notevoli implicazioni nello sviluppo della geometria. La dimostrazione dell’irrazionalità di radice quadrata di 2 scritta da Aristotele è così semplice e bella da essere ancora oggi proposta agli studenti.

L’irrazionalità di radice quadrata di 2 si può anche formulare dicendo che radice quadrata di 2 non è soluzione di un’equazione di primo grado: ax = b, dove a e b sono numeri interi. Tuttavia radice quadrata di 2 è soluzione di equazioni algebriche di grado superiore al primo con coefficienti interi, per esempio dell’equazione di secondo grado x^2 = 2. Ciò si esprime dicendo che radice quadrata di 2 è un numero irrazionale algebrico.

Il più famoso numero irrazionale è certamente π = 3,1415926535…, rapporto tra le lunghezze della circonferenza e del diametro di un qualunque cerchio. A differenza della radice quadrata di 2, π è un numero irrazionale trascendente, ovvero non è soluzione di alcuna equazione algebrica a coefficienti interi. Possiamo pensare tale proprietà come una sorta di impossibilità di raggiungere π attraverso l’algebra non solo delle quattro operazioni, ma anche di qualunque possibile immaginabile procedura (la radice quadrata ne è un esempio) di soluzione di equazioni algebriche. Possiamo dunque solo dare delle approssimazioni: nell’antichità la più raffinata fu ottenuta da Archimede, studiando un poligono regolare di 96 lati, inscritto e circoscritto a una circonferenza, mostrando così che π deve essere compreso tra 3,140845 e 3,142857.

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La trascendenza di π è tutt’altro che elementare e per una sua dimostrazione si dovranno attendere più di duemila anni dopo Archimede. Nel 1882 il matematico tedesco Ferdinand von Lindemann fornì la prima dimostrazione, utilizzando i mezzi assai potenti sviluppati nel XIX secolo dall’analisi matematica; pochi anni prima mezzi simili avevano consentito al francese Charles Hermite di dimostrare la trascendenza del numero e di Nepero, base dei logaritmi naturali.

Il teorema di von Lindemann risolse in negativo il bimillenario problema della quadratura del cerchio: è possibile, usando riga e compasso, costruire un quadrato che abbia area uguale a quella di un cerchio assegnato? Questo problema, ben presente ma irrisolto nella matematica dell’antichità e del medioevo, fu riformulato nell’età moderna mediante la geometria analitica, in termini delle costruzioni algebriche che corrispondono all’uso di riga e compasso.

Uscendo un po’ dalla matematica, e in occasione delle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante, possiamo ricordare come la trascendenza di π sia stata sommamente espressa nel contesto celeste del Paradiso dantesco, negli ultimi versi dell’ultimo Canto. Il viaggio di Dante, dopo l’Inferno e il Purgatorio, ha attraversato anche tutto il Paradiso e, dopo il commiato nell’Empireo da Beatrice, si affida alla guida e alle parole sante di san Bernardo, con la preghiera alla Vergine Madre. Ormai Dante è al cospetto dei più alti misteri della Fede: l’Unità e la Trinità divina, l’Incarnazione. Lo smarrimento umano, che solo la Grazia divina può muovere, è descritto dalla similitudine con uno dei più grandi problemi che l’intelletto umano abbia affrontato. Il matematico, vanamente impegnato nel tentativo di quadrare il cerchio, compare dunque negli ultimi versi (Paradiso, Canto XXXIII, versi 133-145).

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Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
 
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
 
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
 
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
 
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

Foto di apertura, da Creativecommons.org: “‘La Commedia’ by Dante Alighieri – parchment manuscript, year 1411 – Temporary exhibition – Naples, National Library” by Carlo Raso is marked with CC PDM 1.0