Se n’è andata anche Clare Peploe, la regista e sceneggiatrice moglie di Bernardo Bertolucci. A un anno e mezzo dalla morte del regista parmigiano, di questa grande famiglia del nostro novecento rimangono il fratello minore di Clare, Mark – lo sceneggiatore che con Bernardo aveva condiviso l’Oscar per “L’ultimo imperatore” – e la moglie di Giuseppe, Lucilla Albano, docente di interpretazione e critica del cinema a Roma Tre.
Rewind.
LONDRA, 1966. “C’era un party in un seminterrato di Cheyne Walk a Chelsea. Sia io che mia sorella, così come gran parte dei giovani presenti, eravamo lì in qualità di esemplari utili per la ricerca che Antonioni e Tonino Guerra stavano facendo sulla Londra degli anni sessanta. Anche se il mio interesse maggiore era quello di poter incontrare il regista di ‘L’avventura‘, un road movie che aveva cambiato per sempre il mio modo di vedere il cinema.” Così Mark Peploe in “Swinging city – Londra centro del mondo“, di Valentina Agostinis (Feltrinelli, 2012). Quando a gennaio del ’66 Michelangelo Antonioni sbarca a Londra per iniziare le riprese di “Blow up” – dopo avervi trascorso l’anno precedente, con Monica Vitti impegnata nel “Modesty Blaise” di Joseph Losey – Mark ha poco più di vent’anni.
“I due fratelli” – continua la critica milanese – “parlano italiano, è in Italia infatti che fin dall’infanzia passano le loro vacanze. Mark è anche un gran viaggiatore, dopo il college ha fatto l’autostop dall’Iran al Nepal e attraversato l’Afghanistan. Nel viaggio di ritorno ha incontrato la sorella in Libano e da lì insieme hanno raggiunto Israele per assistere al processo in corso contro il criminale nazista Adolf Eichmann. Quando arriva all’incontro con Antonioni, Mark lavora da poco come documentarista per una piccola casa di produzione londinese, la Alan King Associated. Clare, con l’amica Emma Booker ha aperto invece una boutique, ‘The Yellow Room’, dove vende, fra le altre cose, autentiche giacche di pelle afgane, come quelle che le due amiche indossano in una foto pubblicata su ‘London Life’ del 22 gennaio 1966, nella rubrica “What people are wearing“. Hanno tutte e due cappelli a tesa larga schiacciati sulla frangetta, gonne sopra il ginocchio, calze a righe, e spiccano per la disinvoltura con cui nel grigiore di Elizabeth Street portano due vistose
giacche afgane con ricami e orli di pelliccia. Sia Mark che Clare finiranno per dare un aiuto al film di Antonioni con suggerimenti di location, luoghi, persone.” Soprattutto, sarà Clare a segnalare ad Antonioni un giovane attore in scena in quei giorni in un piccolo teatro off con una piece di Dylan Thomas. Si chiama David Hemmings e da quel momento il film avrà il suo protagonista. “Qui inizia una storia che attraverserà il cinema del regista negli anni sessanta, con Clare in prima linea nella realizzazione di ‘Zabriskie Point‘ e Mark come sceneggiatore di ‘Professione Reporter‘.” (V. A.)
NEL MONDO. C’è un’intera biografia in queste note: dalla nascita a Zanzibar (oggi Tanzania), da una coppia di “artisti inglesi girovaghi”, all’incontro con Bertolucci nel nome di Godard (Giacomo Papi, “Il Foglio”), ai set di “Novecento” (da aiuto regista) e di “La luna” (da sceneggiatrice). Fino al momento in cui, da sposati, l’ex giovane guida di artisti e forestieri fra i clamori e i segreti della Swinging London contribuirà, in maniera discreta ma decisiva, all’avventura extraeuropea di questo trentottenne di eccezionale talento, già sposato due volte, ambizioso e un po’ snob, che il ponte fra la Parma di Stendhal, la Parigi del jazz e del grande cinema e la Londra – europea e imperiale insieme – di Thomas Hardy, di Katherine Mansfield, di Virginia Woolf se lo ritrovava in casa, con gli amici e la biblioteca di famiglia. Insieme a lei si imbarcherà, pur mantenendo saldissime radici emiliane (anzi esportandole: la madre, parmigiana nata e vissuta in Australia, rimarrà un paradigma), in una trilogia orientale e africana dai tratti profondamente personali, e persino intimi, ma analoga e parallela a quella antonioniana all’origine della loro storia. Fra il precettore inglese (un grandissimo Peter O’Toole) che insegna al piccolo imperatore detronizzato a parlare la lingua di Shakespeare, andare in bicicletta e giocare a tennis – cioè a tagliare il codino – in quel viaggio verso occidente che valeva la pena fare; e i coniugi americani di Paul Bowles (“Il tè nel deserto”), che viaggiando all’incontrario, come il treno dei desideri di “Azzurro”, trovano la dannazione in Africa all’inseguimento di un sogno assurdo e fuori di loro. Per arrivare al “Piccolo Buddha” newyorkese, che invece vince, prendendo nelle sue mani un destino misterioso ma non incomprensibile.
E IN ITALIA. Poi il ritorno in Italia, ai piccoli film ante “Ultimo tango”. Con l’industriale del parmigiano (inteso come formaggio) che, fra misteriosi comunisti in BMW e finti rapimenti, risarcirà Tognazzi (Palma a Cannes) di quel che Fellini gli aveva tolto negandogli – e negandosi – “Il viaggio di G. Mastorna” (“La tragedia di un uomo ridicolo”) e la giovane americana in vacanza sulle colline del Chianti (“Io ballo da sola”), ospite di una bizzarra comunità di artisti inglesi vecchi amici della madre, per scoprire la verità sulla sua nascita e andarsene, appagata e non più pulzella, lontano da questa amabile (non sempre) e stravagante combriccola di artisti fuori dal mondo. “Qui siamo giunti dove volevamo”, concludeva “La capanna indiana” il padre Attilio. E il “dove volevamo” porta alla studentessa africana, in fuga da una dittatura che ha incarcerato il marito e domestica a Roma per pagarsi gli studi in medicina. E a un’ardua lezione: in amore solo chi è disposto a perdere tutto avrà tutto. E’ un’altra trilogia che si chiude, lungo la dorsale del “Grand tour” da Parma a Roma. E lo fa con un film, “L’assedio”, scritto anche da Clare, squisitamente romano. Protagonista discreto, Vicolo del Bottino. Un pianista inglese, spiantato ereditiere; un vecchio appartamento che l’età e l’assurdo valore di mercato rendono difficile anche commerciare, oltre che gestire o restaurare; due persone che comunicano tramite un calapranzi; “My favourite things” di John Coltrane e, sotto, la folla della Metropolitana che percorre il vicolo inghiottita dal Pincio e quella che ne esce, verso Piazza di Spagna nel sole. Tutte storie di ragazzi, titolari pro tempore dell’unica età in grado ormai di coinvolgerlo. Nel nome del figlio (del nipote, ormai), sempre. Aveva ragione Tullio Kezich quando diceva: Bertolucci è un artista a cui piace scandalizzare e fare il terribile, ma ha il cuore di un bambino. E fino alla fine lui, che figli non ne aveva avuti, ha continuato ad occuparsi di quell’età ingrata che non gli era mai uscita di testa. Come il grillo sotto il trono del piccolo imperatore della Cina. Nessun rimpianto, no. “Non, je ne regrette rien”, canta Edith Piaf sul fotostop finale di “The Dreamers”.
ANCORA A PARIGI. “The Dreamers” è un buon esempio di come si possa migliorare, di molto, un brutto libro traendone un buon film, non tanto sul cinema e sul sessantotto, quanto sul mistero, poetico e doloroso, dei gemelli. In difficile equilibrio su quello che Antonioni, ancora lui, avrebbe chiamato “Il filo pericoloso delle cose”. Da parlarne adesso, che Marco Bellocchio, “gemello diverso” (molto diverso) di Bernardo, nel ricevere la Palma alla carriera a Cannes, toglie il velo sulla tragedia personale del proprio, di gemelli; ormai pacificato, per quanto si può esserlo, a più di cinquant’anni da quel ’68. (“Marx può aspettare”). Infine “Io e te”, un’impresa anche quella, come lo è sempre convincere un autore, in questo caso Niccolò Ammaniti, a cambiare il finale del suo libro. Ma bisognava farlo. Ultimo bellissimo film “da camera”, girato a pochi passi da casa, nelle condizioni sempre più limitanti imposte dallo stato di salute. L’ultimo “su strada”, invece, dura un minuto e mezzo. Girato su impulso di Clare, si chiama “Scarpette rosse” e mostra i sampietrini di Trastevere sotto le ruote della carrozzella di un disabile. Con l’ironico contrappunto danzante di Charles Trenet (“Je chante”) . Sempre insieme, Bernardo e Clare, anche nella realizzazione dei film di lei da regista. Come “Miss Magic”, girato in America nel ’95, con un quasi esordiente Russell Crowe, o il marivaudiano “Il trionfo dell’amore”, con Mira Sorvino e Ben Kingsley, prodotto da lui.
IL GRILLO SOTTO IL TRONO. Al cinema di Clare Peploe renderanno omaggio a Roma fra pochi giorni i “Ragazzi del Cinema America” con la proiezione di “Miss Magic”. Lo faranno a San Cosimato, nella loro piazza simbolo, a due passi da quella che era casa sua. Da fervidi sostenitori della prima ora, i Bertolucci vi presentavano ogni anno uno o più film; prima insieme, poi lei da sola. Previsto come omaggio in presenza, lo sarà in memoria.
Ma prima di andarsene, Clare ci ha portato nella sala del trono della loro Città proibita. A sua cura, sono da qualche mese in libreria, per gli ottant’anni del marito, due belle cose, da cercare e da leggere: la riedizione del primo ed unico libro di poesie di Bernardo, e la lectio magistralis (“Il mistero del cinema”, La Nave di Teseo) letta in quel teatro Regio che aveva ospitato una delle sequenze principali di “Prima della rivoluzione”, ricevendo la laurea in “Storia e critica delle arti e dello spettacolo” conferitagli nel 2014 dall’Università di Parma. In pratica, la tesi di laurea richiesta anche a chi la riceve “honoris causa”.
Scritte fra i quattordici e i vent’anni, le poesie di “In cerca del mistero” (Longanesi la prima edizione, dedicata ad Adriana Asti, Garzanti questa) procurarono al giovanissimo poeta un importante premio letterario: il Viareggio opera prima. Sorprendenti e belle, sono la traccia esemplare di uno slittamento vocazionale: dalla poesia al cinema, dall’imitazione del padre (e di Pasolini) alla conquista della sua stima e della propria strada; dentro la storia familiare, ma sottraendosi orgogliosamente al confronto. Sono il grillo nascosto dal piccolo imperatore sotto il suo trono, ritrovato vivo sessant’anni dopo. E come i bambini in visita alla Città Proibita – che un buffo custode guida in punta di piedi al trono in cui ha seduto bambino e sotto il quale nascondeva il suo grillo – davanti al mistero di quella scatolina bucata con dentro un grillo ancora vivo, anche noi ci voltiamo, a cercare chi ci ha guidato lì. Ma non c’è più nessuno.