Uno dei prossimi appuntamenti della politica sarà la revisione della “legge antitrust”. Tutti gli Stati e le Organizzazioni sovrannazionali dedicano molta attenzione e parecchie risorse al controllo delle concentrazioni industriali.

Quella di maggiore attualità nel nostro Paese riguarda l’imminente integrazione del Monte dei Paschi di Siena in Unicredit, la quale a sua volta è la risultante delle fusioni tra il Credito Italiano e la Banca di Roma, la Cassa di Risparmio di Roma e il Banco di S. Spirito.

A non molti anni fa risale invece la fusione tra l’Istituto bancario San Paolo di Torino (già incorporante la Banca delle Comunicazioni, il Banco di Napoli ed altre piccole banche del Sud) e la Banca Intesa, sorta sulle ceneri – ex multis – del Banco Ambrosiano, della Cattolica del Veneto, della Cariplo, della Cassa di Risparmio del Veneto e della gloriosa Comit di Mattioli, Malagodi, La Malfa e Bragiotti, che poi ha rilevato, al fine di evitarne il fallimento, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. E il discorso potrebbe continuare a lungo.

Anche sul piano internazionale le concentrazioni, in pochi anni, si sono susseguite: basti pensare, nel settore bancario, a quella tra BNP e Banca Nazionale del Lavoro e, nel settore assicurativo, a quello fra Allianz e RAS.

All’estero le cose non sono andate diversamente: limitandoci alle concentrazioni più importanti, possiamo menzionare le fusioni tra UBS e SBS e fra AXA e Winterthur. Senza dimenticare che un tempo le grandi compagnie petrolifere erano chiamate le “sette sorelle” le quali, a forza di acquisizioni e di fusioni, sono rimaste in quattro a dividersi il mercato mondiale dell’energia (ExxonMobil, Chevron, BP e Shell), assieme a qualche comprimaria di minore potenza; e che pure le grandi società operanti nel campo della revisione contabile e della consulenza aziendale – le “big eight” – sono rimaste in quattro – le “big four” – a ripartirsi un mercato enorme (EY, Deloitte, PWC e KPMG), sempre con qualche realtà locale di dimensioni notevolmente inferiori. Ciò per non parlare di quel che è accaduto in altri rilevanti settori industriali, quali quelli dell’acciaio e dell’automobile, e che è sotto gli occhi di tutti.

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Cosa concludere muovendo da questi dati di fatto? Che le Autorità antitrust – nazionali e sovrannazionali – non riescono a frenare la corsa, che è globale, alle concentrazioni; che la tendenza va inesorabilmente nella direzione della creazione di imponenti oligopoli a livello planetario; e che provvedimenti quali l’obbligo di cessione a terzi di qualche sportello bancario, o di qualche agenzia, o di qualche ramo d’azienda sono dei “pannicelli caldi” che non hanno alcuna incidenza sull’indirizzo in atto.

E allora le Autorità, e con esse i legislatori, non pretendano di dirigere il mercato, il quale ha le sue regole che neppure le leggi degli Stati riescono a scalfire. Sciocchezze come questa erano il verbo dei soloni dell’economia accentrata, che oggi non esiste più, tant’è vero che anche i Paesi comunisti o post-comunisti – quali la Cina e la Russia – hanno ormai imparato ad operare a livello internazionale secondo regole di mercato.

Ciò che tali Autorità possono – e dovrebbero – fare è vigilare affinché gli oligopolisti non pongano in essere accordi (le “intese”) in violazione dei princìpi della concorrenza e a danno dei consumatori e della libertà economica, intervenendo all’occorrenza senza guardare in faccia nessuno e senza timori reverenziali. Questo sarebbe già un contributo prezioso per evitare turbative del mercato.