Il rapporto Draghi ha messo in luce con chiarezza, visione e ambizione politica le sfide dell’Europa e proposto soluzioni per uscire dal declino. Il motore della crescita economica si è fermato. La produttività del lavoro era quasi pari a quella degli Stati Uniti nel 1995 come conseguenza della maggiore integrazione economica nel continente europeo. Oggi è scesa all’80%. Allo stesso tempo, oggi, l’Europa dispone di sempre meno forza lavoro e, all’orizzonte 2040, si prevede una riduzione di oltre due milioni di lavoratori l’anno, mentre il rapporto tra lavoratori e pensionati potrebbe passare da 3:1 a 2:1.
L’Unione Europea dovrà mobilitare ingenti risorse per colmare il gap tecnologico con Stati Uniti e Cina, che hanno fatto altrettanto per arrivare alle posizioni di oggi. Draghi propone di aumentare il tasso di investimento di 5 punti percentuali l’anno (dal 22% al 27% del Pil europeo) con risorse finanziate mediante debito comune, alla stregua di Next Generation EU. Il piano di investimenti, pari a 800 miliardi di euro l’anno, rappresenta, in termini di raffronto col piano Marshall, tre volte il volume di risorse mobilitato per la ricostruzione dell’economia europea tra il 1948 e il 1951. Il bilancio dell’UE è pari all’1% del Pil, di cui circa l’80% è dedicato a trasferimenti non discrezionali con risorse preassegnate agli Stati, soprattutto coesione e agricoltura.
Serve quindi uno sforzo straordinario da parte sia del settore pubblico sia del settore privato per far fronte alle sfide odierne dell’economia europea, lungo tre linee prioritarie di intervento: innovazione nelle high tech; decarbonizzazione dell’industria europea; sicurezza economica e riduzione delle dipendenze strategiche nelle catene del valore globali.
Il rapporto è stato accolto con grande fervore e entusiasmo da molti economisti e opinionisti, mentre non sono mancate le reazioni negative da parte di alcuni governi, soprattutto quelli dei paesi “frugali”. La questione principale è se l’Unione Europea, nella sua forma attuale, ha la capacità di attuare il piano proposto da Draghi. Ad oggi, sono due i principali ostacoli.
Il primo riguarda la questione del finanziamento del piano d’investimento. Su questo punto Draghi è stato piuttosto cauto: il fondo finanziato con debito comune dovrebbe essere accompagnato da regole di bilancio più stringenti. In realtà, il modo in cui sono concepite le regole di bilancio europee e nazionali non lasciano spazio alle principali raccomandazioni politiche di Draghi.
Gli Stati membri sono al limite dei loro margini di bilancio. Le componenti principali delle spese pubbliche sono la spesa sociale-sanitaria, la sicurezza e gli investimenti. I bilanci per la sicurezza stanno aumentando ovunque. Qualsiasi spostamento verso gli investimenti produttivi dovrebbe essere finanziato attraverso il debito o attraverso minori trasferimenti sociali, molto probabilmente una combinazione dei due. Finanziare un aumento permanente degli investimenti di cinque punti percentuali esclusivamente attraverso il debito pubblico sarebbe fiscalmente dannoso. Tuttavia, in pura logica economica, si presume che l’investimento addizionale aumenti in futuro la produzione e la produttività, e quindi la crescita potenziale.
Il secondo problema è più insidioso. Supponendo che si sia in grado di superare il primo ostacolo, c’è una buona probabilità che le risorse finiscano per essere spese in sussidi inutili, non nelle tipologie di investimenti suggeriti dal piano Draghi. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando la federazione tedesca dell’industria (BDI) ha chiesto un fondo da 1,4 trilioni di euro per aiutare le aziende tedesche a competere sui mercati mondiali, di cui € 410 miliardi in sussidi per ridurre i costi energetici e € 164 miliardi per investimenti in infrastrutture di base. Questo fondo non sarebbe destinato a finanziare le reti digitali e i sistemi di intelligenza artificiale, né la diversificazione economica, ma solo a rafforzare i colossi tedeschi del secolo scorso. Ciò dimostra che la Germania, nonostante le previsioni negative sul futuro dell’industria tedesca, si preoccupa poco delle industrie del futuro e del venture capital come strumento per finanziarle. Per lo stesso motivo, la Germania ha bocciato la proposta centrale del rapporto Draghi.
Tornando al rapporto Draghi, questo significativo contributo non fornisce soltanto raccomandazioni di politica economica per la Commissione europea e i governi dell’Unione Europea. Rappresenta anche un’agenda di riforma costituzionale per cambiare, nel senso che l’Unione, per poter attuare l’agenda economica come tale, deve modificare il suo modo di funzionare, cioè con un trattato che ne consenta l’attuazione.
Attuare le raccomandazioni di Draghi in modo sostanziale può avvenire solo con una coalizione delle volontà (“coalition of the willing”), ovvero attraverso la cooperazione rafforzata. L’idea generale della disposizione del trattato sulla cooperazione rafforzata era quella di consentire ai paesi dell’UE che partecipavano all’area dell’euro di sviluppare un’unione fiscale tra loro. Per avanzare nel mercato unico o nella difesa, questa è l’unica opzione praticabile.
L’Unione Europea ha bisogno del rapporto Draghi come piattaforma per una crescita guidata dagli investimenti. Ciò richiederà un’unione dei mercati dei capitali sostenuta da un common safe asset (o eurobond) e un aumento degli investimenti del settore pubblico. Gli europei dovranno abituarsi all’idea che, qualunque cosa vogliano fare per rafforzare l’UE, dovranno forse realizzarlo senza la Germania.
Il rapporto Draghi è quanto di meglio si possa ottenere, in termini di qualità delle analisi e raccomandazioni di politica economica. Sarà un punto di riferimento in base al quale l’UE sarà giudicata dalle generazioni future. Un peccato che la tentazione sia di farne, per ora, un uso “à la carte” in funzione dei diversi interessi nazionali o corporatisti (gli agricoltori o gli industriali tedeschi che chiedono meno regolamentazione) a scapito del bene comune europeo.
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