Il settimanale The New Yorker è certamente uno dei più autorevoli periodici statunitensi. Il suo primo numero porta la data del 21 febbraio 1925. Un successo ormai di un secolo, dovuto all’originale impostazione cosmopolita e alla collaborazione di alcuni tra i maggiori scrittori e saggisti contemporanei. Riferimento di non pochi lettori anche fuori degli Stati Uniti.
Dirò qui qualcosa su un articolo di D. T. Max, pubblicato dal New Yorker del 30 settembre, dedicato ad alcuni aspetti dell’opera di don Luigi Ciotti.
Il 2025: quattro compleanni
Oltre ai 100 anni dal primo numero del New Yorker, il 2025 accompagnerà altri tre compleanni, tutti legati a don Luigi Ciotti. Il carismatico religioso bellunese è personalità simbolo e straordinario aggregatore di forze in vari ambiti. Dalla lotta alle dipendenze da sostanze e comportamenti a quella per la dignità nelle realtà di povertà ed emarginazione. Dalla lotta alla criminalità organizzata alla sensibilizzazione e informazione nelle scuole, nelle università, nei campi estivi per giovani. Con la memoria delle vittime di mafia, l’attenzione ai loro familiari, la gestione e utilizzo dei beni confiscati alle mafie. E ancora, nella lotta alla corruzione, tema sotto vari aspetti adiacente a quello delle mafie.
Come dicevo, tre compleanni coinvolgeranno nel 2025 don Luigi Ciotti. Nato a Pieve di Cadore il 10 settembre 1945, dunque in primo luogo i suoi 80 anni. Poi i 60 anni del Gruppo Abele, evoluzione del più piccolo gruppo Gioventù impegnata, fondato nel 1965 a Torino dal giovanissimo Luigi e alcuni suoi amici. Per avvicinare e aiutare giovani con problemi di droga o che vivevano per strada. Diversi anni prima che Luigi fosse ordinato sacerdote e che il lungimirante Cardinale Michele Pellegrino gli assegnasse come parrocchia la strada: “Dio ti vuole con questi ragazzi, e questo sarà da oggi il tuo ministero sacerdotale, per decisione del tuo Vescovo”.
E infine il terzo compleanno sono i 30 anni di Libera contro le mafie, fondata da don Ciotti nella primavera del 1995. Oggi con decine di migliaia di volontari, punto di riferimento internazionale nella lotta alla criminalità organizzata. A livello europeo Libera è promotrice della rete CHANCE, che comprende associazioni nazionali impegnate contro criminalità organizzata e corruzione, e attive in 18 paesi d’Europa. Con fondamentale riferimento l’esperienza nella lotta alle mafie maturata in Italia. Un tema trattato anche in un articolo su CHANCE apparso pochi mesi su Tutti Europa ventitrenta.
Donne che fuggono dalle mafie. Rita Atria, testimone di giustizia
Titolo dell’articolo sul New Yorker di D. T. Max è “Il prete che aiuta le donne a fuggire dalla mafia”. È questo un aspetto non notissimo dell’impegno di don Luigi Ciotti: la costruzione di una rete protetta di rifugi dove possono essere accolte le donne che vogliono uscire dalle reti criminali.
Soprattutto di quelle donne che non hanno titolo ad essere protette dallo Stato poiché non testimoni di giustizia. E dunque che, non potendo aiutare lo Stato nella lotta alla criminalità organizzata, non rientrano in programmi di protezione gestiti dallo Stato.
Un esempio spesso raccontato di testimone di giustizia è tuttora Rita Atria (1974-1992), “la picciridda”. La sua giovane vita fu protetta dallo Stato, ma si concluse tragicamente. Cresciuta a Partanna, piccolo paese in provincia di Trapani. Assai vicino alla più grande Castelvetrano, dove il boss della mafia ai tempi di Rita si chiamava Francesco Messina Denaro. Suo figlio Matteo aveva già mosso i primi passi di una carriera criminale che lo porterà al vertice di Cosa Nostra. Il padre di Rita si chiamava Vito, ufficialmente era un pastore. Rita aveva un fratello maggiore, Nicola, e nella piccola Partanna sembrava impossibile per gli uomini non fare riferimento alle cosche locali. Sia Vito che Nicola in tempi diversi furono uccisi dalla mafia.
Rita era una ragazzina, ma sapeva molte cose, e insieme alla cognata Piera, giovane vedova di Nicola, decise di testimoniare. Rita si sentì accolta e supportata in particolare da Paolo Borsellino, all’epoca Procuratore di Marsala. Fino a percepire nell’umanità del giudice Borsellino il ruolo di una guida paterna che le era mancata. E che, dalla morte dei due uomini della sua famiglia, le mancava ancora di più. Sia Rita che Piera rientrarono nel programma di protezione dello Stato. Fu loro cambiata l’identità e trovato un alloggio protetto a Roma.
Rita Atria di fatto è stata la “settima vittima della strage di via D’Amelio”. La strage del 19 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Costa e Claudio Traina. I sogni per il futuro della diciassettenne Rita, all’epoca a Roma, sono testimoniati da un suo tema. Scritto per l’esame all’esame di qualifica alberghiera appena un mese prima, all’indomani della strage di Capaci.
Il 26 luglio 1992, una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita si gettò dalla finestra al settimo piano del suo alloggio protetto, al quartiere Tuscolano di Roma. Sotto alla sua casa romana, in viale Amelia 23, vi è oggi un piccolo albero e un’aiuola con una targa in sua memoria.
Una proposta di legge: Liberi di scegliere
Come accennato sopra, non poche donne che decidono di fuggire dagli ambienti di mafia non hanno titolo ad essere protette dallo Stato. Alcune di esse, una quarantina in tutto, si sono rivolte a don Luigi Ciotti. Non senza difficoltà, don Ciotti è riuscito a creare una rete di rifugi protetti e mezzi per facilitare la loro difficile scelta. Alcune delle loro vicende sono raccontate, nel più assoluto anonimato, a D. T. Max, autore dell’articolo di cui sto parlando, che ha seguito don Ciotti per alcuni giorni. Naturalmente anche gli spostamenti di don Ciotti sono protetti, accompagnati da cinque agenti di scorta, da un’auto blindata, da pernottamenti in luoghi riservati. L’articolista riferisce anche di come don Ciotti, rispondendo al telefono, usi coprire la bocca con l’altra mano per evitare la possibile lettura delle labbra.
La mafia cerca sempre di recuperare con ogni mezzo le sue donne. Ancora di più vuole recuperare i figli, che devono portare avanti le attività dei clan mafiosi. L’unità delle famiglie, l’omertà assoluta, la fedeltà alle cosche di riferimento sono spesso suggellate con il sangue nella sacralità dell’iniziazione mafiosa. Inconcepibile tradire la famiglia. Le donne che rompono tale unità sono un affronto e un pericolo, anche per quel fondamentale capitale che è costituito dai figli.
Liberi di scegliere è nome di un protocollo interministeriale promosso da Libera insieme al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, e firmato anche dalla CEI. Libera sta cercando da anni di trasformare Liberi di scegliere in una proposta di legge, a tutela dei minori che scelgono di allontanarsi dalle loro famiglie e delle madri che non sono in grado di offrire in cambio testimonianze di reato. Con nuove regole per il cambio di nome, che garantiscano nello stesso tempo la riservatezza e il pieno utilizzo del nuovo nome ai fini del lavoro. Coinvolgendo anche le associazioni del Terzo Settore, come Libera, per aiutare il reinserimento delle donne che hanno abbandonato la mafia.
La proposta di legge è ben spiegata dalla senatrice e avvocata Vincenza Rando, stretta collaboratrice di don Ciotti e di Libera: “Bisogna aiutare le donne e i loro figli ad avere un dopo. Serve la rete umana. Prima, nel contesto mafioso, hanno una loro identità molto forte. Dopo, senza interventi mirati rimangono sole. Aiutare queste donne e i loro figli significa combattere la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Rompe l’indottrinamento dei clan, li rende impotenti. Questi criminali sono potenti nel gruppo mafioso se sono forti nella famiglia, se dimostrano di saperla controllare. Quando questo viene meno diventano deboli”.
Immagine di copertina: Don Luigi Ciotti al Circo Massimo. XXIX Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia. Roma, 21 marzo 2024.