La qualità e l’impegno dei Paesi industrializzati per ridurre le emissioni nocive sono requisiti che accrescono la credibilità dei governi. Nei consessi internazionali Capi di Stato e di governo non sempre, pero’, portano con sé dati a supporto di quegli impegni. E se fino a qualche tempo fa era persino possibile manomettere cifre e statistiche, nei fatti non è più cosi’. La guerra in Ucraina ha cambiato – ed ancora cambierà- gli scenari per un’ autentica decarbonizzazione del pianeta. Quel conflitto ha fatto scoprire a tutti coloro che lo ignoravano che la transizione ecologica senza fonti fossili è praticamente impossibile. Di gas, petrolio e carbone il mondo ne ha ancora un gran bisogno. I livelli di inquinamento atmosferico restano, intanto, elevati sicché anche quei governi che si ritengono meno colpevoli, in realtà sono sotto esame.

A confermare questo stato di fatto non lusinghiero è il rapporto “G-20 Zero-Carbon Policy Scoreboard” curato dal gruppo di ricerca BloombergBNEF. Tra i governi del G20 non ce n’è nessuno che ha messo in atto politiche  concrete per affrontare il cambiamento climatico. Anzi, rispetto a quanto si è detto detto e scritto negli accordi della COP26 di Glasgow, sono tutti più o meno allo zero assoluto. L’ambizione per un mondo migliore nella sostanza contraddice i programmi di 19 Paesi tra i più industrializzati. Con il mesto risultato che  tutti insieme sono responsabili dell’80% delle emissioni di gas serra. Considerato che l’Ue è il 20° membro del G20 e che da sola ha gli obiettivi più ambiziosi contro i cambiamenti climatici, non c’è da stare troppo sereni. Michael R. Bloomberg, inviato speciale del segretario dell’ONU per le questioni climatiche e fondatore di Bloomberg Philanthropies dice che “le parole contano solo se sono sostenute dall’azione, e la realtà è che nessuno dei Paesi del G20 sta realizzando abbastanza velocemente i tagli promessi alle emissioni.” Tutto cio’ che sta  scritto nei documenti ufficiali ha trovato nella guerra in Ucraina uno straordinario  acceleratore di decisioni verso le rinnovabili, soprattutto per abbassare la dipendenza dal gas russo. E ci sarebbe molto da dire sulle strategie europee che hanno determinato un legame cosi’ stretto con il fornitore russo. Ma per quanti sforzi facciano le economie europee per riconvertire i sistemi di produzione è vero che c’è bisogno ancora di qualche decennio. I tempi di una realistica transizione, una rivoluzione a metà, appunto.

Fatto 100 % il parametro per ogni Paese rispetto alla quantità di gas serra, è stato scoperto che solo 11 Paesi su 19 hanno realizzato qualche lieve progresso. Germania, Francia e Italia, insieme al Regno Unito, hanno migliorato i loro punteggi totali medi di pochi  punti. Ovviamente possono  fare di meglio. Stati Uniti, Australia, Giappone, Turchia non sono andati bene, come  del resto tutte le economie emergenti. Il mondo è diviso e nella più evidente contraddizione tra il dire e il fare ci sono settori dove è più urgente intervenire per ridurre i gas serra. 6 aree – dicono i ricercatori- dove investimenti e regole piu`stringenti abbasserebbero  le emissioni killer. Il settore energetico, per esempio, è quello che richiede una maggiore capacità di innovazione sostituendo carburanti tradizionali con vettori ecologici. Al secondo posto ci sono i trasporti, ancora troppo impattanti sull’ambiente. Ma gli sforzi maggiori vanno fatti nell’edilizia, nell’industria in generale, nella promozione dei combustibili a basso contenuto di carbonio, nell’economia circolare. Se non tutto è  compromesso i margini di miglioramento ci sono un po’ dappertutto. Per giunta se al rapporto di Bloomberg aggiungiamo i dati dell’ lpcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, sappiamo che  “la limitazione del global warming a 1,5 gradi si sta allontanando sempre di più “. Come forse sta avvenendo tra chi teme il peggio e chi ( a parole) dice di combatterlo.