I nostri partner comunitari fanno spesso mostra di non capirci e di non fidarsi di noi. Possiamo, in tutta onestà, dar loro torto?

Pare che Henry Kissinger, uomo di certo aduso alle sottigliezze politico-diplomatiche, uscendo da un colloquio in cui Aldo Moro (per altro un gigante a dispetto dei pigmei che popolano l’attuale arengo politico italiano) si era dilungato su “convergenze parallele” e simili astruserie, fosse sbottato: «Ma che ha detto? Non ci ho capito nulla». È ipotizzabile qualcosa del genere per una Merkel, un Macron o una Ursula von der Leyen. Vedendo che, invece di sbrigarci a consegnare il nostro Recovery plan, ci azzuffiamo su cose per loro misteriose come “rimpasto”, “Conte ter” o “crisi pilotata”, facile che si chiedano l’un l’altra: «Ma cosa caspita stanno combinando?».

Angela Merkel e Emmanuel Macron

Siamo incomprensibili o inaffidabili? Le cancellerie europee da tempo non hanno più dubbi: siamo entrambe le cose. Un pregiudizio? A ben vedere un postgiudizio. Almeno storicamente parlando, viste le simpatie che, dall’Inghilterra alla Germania, alla Francia, hanno accompagnato la nascita dello stato italiano. Una grossa rendita. Che abbiamo preso a mangiarci da subito, grazie anche al fattivo contributo dei Savoia. Possiamo inveire al fato per averci riservato una delle più rozze e meschine case regnanti d’Europa. Ma di chi è la colpa di essersi tenuta stretta per quasi un secolo una corte provinciale, piena di generali e povera di intellettuali, capeggiata da re poco istruiti e vanagloriosi che hanno messo bocca con costanza e in malo modo tanto nella politica estera, quanto in quella interna? Colpevoli di comportamenti indegni già nel mentre si stava facendo l’Italia. Pensiamo solo a quella sceneggiata di mandare avanti il povero Garibaldi, pronti a intestarsi le vittorie e a far finta di non conoscerlo se ne usciva con le ossa rotte. Ce n’etait qu’un début: il resto della storia patria si sarebbe dimostrata all’altezza. Fanno fede, su tutto, i nostri due più clamorosi voltafaccia: quelli relativi alla Prima e alla Seconda guerra mondiale.

Insomma, inutile piagnucolare sulla (scarsa) considerazione altrui: abbiamo ciò che ci meritiamo. Perché è un fatto: a pensar male della serietà degli italiani si farà peccato, però quasi sempre si indovina. Tanto per dire di come siamo sempre stati bravi a farci riconoscere, è rimasto negli annali il gesto di Franco Maria Malfatti, che nel 1972 lasciò anzitempo la carica di presidente della Commissione Europea per candidarsi alle elezioni politiche. E ci è rimasto perché a tutt’oggi è l’unico che, in 50 anni di storia, si sia dimesso per ragioni di politica interna al suo paese.

Che la scarsa fiducia nei nostri confronti non generi da un pregiudizio lo dimostra il fatto che quando a Bruxelles o a Strasburgo mandiamo persone in gamba, non hanno difficoltà a riservar loro posti apicali. Anche per questo è solo possibile immaginare il rassegnato sconcerto creato dall’arrivo dell’ultimo, ineffabile duo: un abborracciato presidente del Consiglio, continuamente intento a dimostrare che fino a poco tempo fa faceva tutt’altro mestiere; e un ministro degli Esteri con un curriculum (se la parola curriculum non dovesse suonare troppo pomposa) inadeguato pure per un lavoro interinale.

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I partner europei hanno dunque le loro buone ragioni per guardarci perplessi. E soprattutto per essere molto, molto preoccupati. Altro che Grecia o Portogallo (due paesi, per inciso, rivelatisi nel tempo assai più virtuosi del nostro): il grande malato del continente siamo noi. Soprattutto, per il peso della nostra economia. Non siamo, come magari ci piacerebbe credere, too big to fail, troppo grandi per fallire, ma troppo grandi per non aprire, cadendo, un baratro in cui precipiterebbero l’euro e gli altri paesi dell’UE. È questo il vero motivo della pazienza che ci dimostrano e del terrore che seminiamo. Uno spettro si aggira per l’Europa ed ha le fattezze di uno stivale.

In questi anni potevamo cercare di guarire. Invece, abbiamo fatto i bambini viziati, promettendo riforme invece di farle, scialacquando deficit a gogò e arrivando persino a minacciare farsesche uscite dall’euro. Non ci è parso vero, complice il coronavirus, di poter perseverare nella nostra inaffidabilità fino a questi ultimi giorni. Abbiamo fatto fuoco e fiamme per ottenere facili prestiti e soldi a fondo perduto più di ogni altro paese. Salvo poi essere i soli a non aver ancora fatto i compiti a casa: a non aver cioè indicato come vorremmo spendere gli 81 miliardi di euro a noi destinati.

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È probabile che il nostro destino sia di essere incompresi. In effetti, non ci capiscono le altre nazioni europee. Ma mettiamoci nei loro panni: potrebbero mai arrivare a concepire che siamo in ritardo perchè presi da ben altre urgenze, tipo correre dietro a un ragazzotto megalomane che, forte del 2% di voti di cui è accreditato, vorrebbe essere lui a dare le carte della politica italiana?

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