È paradossale che nel bel mezzo di una grave crisi che dimostra l’effetto drammatico che la dipendenza da fonti fossili – e soprattutto dal gas – ha su tutt@ noi, ci troviamo a constatare che il Green Deal europeo e in generale le politiche climatiche sono a forte rischio di ridimensionamento in Italia, in Europa, a livello globale.

L’aumento delle bollette e dei costi energetici per le imprese viene ormai attribuito senza alcuna base reale ad una transizione verde troppo affrettata, invece che ai ritardi nell’attuarla per tempo; rinnovabili e risparmio energetico, nonostante i costi in picchiata e le soluzioni sempre più efficaci, appaiono come soluzioni più irrealistiche che riprendere a trivellare, costruire nuove centrali a gas e addirittura nucleari e, in genere, l’urgenza climatica è passata in secondo piano, nonostante ogni giorno emergano nuove evidenze delle gravi conseguenze di un clima sregolato;  le emissioni, dopo la pausa causata dal COVID, hanno ripreso a crescere e nella UE hanno raggiunto i livelli pre-COVID, aumentando negli ultimi mesi del 6% rispetto allo stesso periodo del 2020: se consideriamo che per raggiungere i target europei al 2030 bisognerebbe ridurre le emissioni del 7% all’anno – cioè l’equivalente dello stop dovuto alla pandemia – vediamo bene che non siamo sulla strada giusta.

In questa situazione, le normative europee del pacchetto detto “fit for 55%” o “fit for 2050” anno nel quale la UE si è impegnata a raggiungere zero emissioni nette, sono a rischio. Queste normative, che toccano tutto il settore energetico, dalle rinnovabili, al mercato del gas, agli edifici, al cosiddetto ETS, cioè il sistema di scambio di emissioni, alle foreste, ecc. hanno l’ambizione di riaggiustare gli obiettivi europei di riduzione di emissione e le regole comuni per arrivarci, ma si scontrano con la crescente ostilità e per le strategie divergenti di numerosi paesi membri, che, forti del fatto che il Trattato di Lisbona prevede che ognuno può scegliere il suo mix energetico, puntano gli uni sul gas, come l’Italia, altri sul nucleare come Francia e Olanda, altri sulle rinnovabili come Germania, Spagna e Portogallo, mentre altri ancora come la Polonia puntano semplicemente i piedi sull’uscita dal carbone per ottenere più soldi dall’Europa e favorire, come del resto fanno  tutti, Italia in testa, le oligarchie energetiche nazionali. Il COVID ha anche stoppato di netto lo slancio delle mobilitazioni dei giovani dei FFF che tra il 2018 e l’inizio della pandemia hanno invaso le piazze del mondo e hanno avuto un impatto reale sulla scelta europea del Green Deal e sui risultati delle elezioni europee del 2019, anche perché hanno dato una rilevanza e visibilità mai viste prima ai drammatici avvertimenti degli scienziati, che hanno spiegato nei minimi dettagli come abbiamo una finestra di opportunità di meno di dieci anni per invertire la rotta dell’aumento delle emissioni per limitare il riscaldamento globale sotto 1,5°, soglia al di là della quale l’accelerazione dei fenomeni climatici catastrofici, di cui ogni giorno vediamo già gli effetti, diventerebbero incontrollabili (oggi siamo a +1,1°!)

A quattro mesi dalla fine di una COP26 a Glasgow, conclusasi fra le lacrime di frustrazione del suo Presiedente Alok Sharma e qualche spiraglio positivo, complice l’aumento dei prezzi, giochi di potere geopolitici, le conseguenze economiche dell’uscita dalla pandemia, il ritorno in forza delle lobby fossili, dobbiamo constatare che in Europa, ma anche in Cina, Giappone, Stati Uniti il sostegno politico e pubblico alle politiche di radicale cambiamento che sarebbero indispensabili sta riducendosi in modo veramente preoccupante.

In Europa, la dimostrazione più chiara di questo trend è stata data dalla gravissima decisione della Commissione europea di includere gas e nucleare nella cosiddetta tassonomia, decisione presa nella notte di Capodanno e confermata dopo una breve consultazione degli esperti -che l’hanno respinta in blocco, e del comitato consultivo degli Stati membri che invece, anche qui compresa l’Italia, hanno spinto per allargare le maglie.

Ma è necessario esaminare anche nel dettaglio i vari aspetti di questi provvedimenti, che possono sembrare molto tecnici, per potersi rendere conto di come stanno le cose.

La tassonomia fissa gli standard per definire una attività economica “sostenibile” secondo una serie di criteri a seconda della loro capacità di ridurre le emissioni e non danneggiare l’ambiente, elaborati per mesi da gruppi di esperti e approvati in una legge da Parlamento e Consiglio nel 2020.

È importantissimo notare che resta perfettamente legale continuare a investire in nucleare e fossile, queste norme non proibiscono nulla: esse hanno l’obiettivo di rappresentare una guida per gli investitori, i governi, le imprese e possono rappresentare un potente aiuto alla finanza sostenibile, ancora oggi largamente insufficiente a coprire i costi della transizione.

Dall’approvazione della legge, la Commissione lavora sui cosiddetti atti delegati, in pratica dei decreti attuativi, che una volta presentati passano automaticamente, a meno che 15 Stati o il 65% degli europe@ o 353 deputat@ europe@ si oppongano entro 4 mesi; questo atto delegato, un testo di una cinquantina di pagine di non facile lettura, di cui ha dato notizia il FT del 1°gennaio tratta di uno dei temi più controversi e in ballo da mesi, appunto il ruolo di gas e nucleare. Poiché ad oggi non c’è una maggioranza di blocco per respingere la proposta della Commissione né se comprendesse gas e nucleare né se venissero esclusi, si capiscono le pressioni di stati membri, lobbies, ONG, istituti bancari, ecc… e le divisioni interne alla stessa Commissione. A dicembre 2021, perfino il Consiglio Europeo ne aveva discusso senza trovare alcun accordo.

La Commissione nel suo comunicato di presentazione ritiene che «tenendo conto dei pareri scientifici e degli attuali progressi tecnologici che ci sia un ruolo per il gas naturale e il nucleare come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle rinnovabili». Assicura che ci sono condizioni “chiare e rigorose” perché questo sia accettabile, i criteri saranno rivisti regolarmente e comunque gli investitori/trici «potranno identificare se le attività includono il gas o il nucleare,» e in che misura, in modo da poter fare una scelta informata: cioè la Commissione definisce gas e nucleare come attività verdi, ma sa benissimo che non è vero.

Solo da questa ultima rassicurazione, si capisce l’ipocrisia che sta dietro questo vero e proprio sabotaggio del Green Deal e che si traduce con il rischio di continuare a investire milioni di euro in tecnologie e carburanti che ci allontanano dall’obiettivo della neutralità climatica (emissioni zero) nel 2050: nelle norme attuative, infatti, energie rinnovabili ed efficienza energetica rischiano di essere messe praticamente sullo stesso piano che la costruzione di centrali nucleari secondo le tecnologie attuali fino al 2045 o impianti a gas a condizioni molto generose (270 gr di CO2 per KWh invece dei 100 inizialmente previsti) e praticamente inverificabili, cosi complicate da risultare fasulle. E non è un caso che Macron sia stato il grande sponsor di questa decisione e che il clamoroso revival del nucleare sia avvenuto dopo la sua vittoria sul fronte della tassonomia. Le conseguenze di questa decisione sono gravi per la credibilità del Green Deal e per la supposta leadership climatica della UE. Centinaia di istituti bancari hanno fatto sapere che non utilizzeranno gli standard europei per orientare i propri investitori; perfino i green bonds russi non comprendono gas e nucleare e la BEI ha fatto sapere che non modificherà i propri criteri per i prestiti, che prevedono condizioni più stringenti.  Ma soprattutto, contrariamente a quanto dichiarato dalla Commissaria Maread Mc Guinness, la tassonomia non orienta solo gli investimenti privati: rappresenta anche una potente base per giustificare anche le scelte dei governi, come dimostrato dalla fortissima pressione dei settori nucleari, energivori e fossili (vedi in Italia la vera e propria campagna pro-gas di ENI e Confindustria subito ripresa dal Ministro per la Transizione (o Finzione?) ecologica Cingolani).

In questa situazione invero sconsolante se non drammatica per i destini di tutt@ noi che fare?

Davanti a noi poco tempo e pochi mezzi veramente efficaci, dato che la politica e i media seguono altre effimere priorità e soluzioni facili che non sono tali. Sono perciò convinta che solo una ripresa potente e immediata, dopo lo stop imposto dal COVID, della mobilitazione dei giovani (e meno giovani) dei Fridays for Future e di tutto l’associazionismo ambientalista e non solo, un controllo stretto del processo legislativo da parte di media più consapevoli del loro ruolo e responsabilità, del mondo accademico, dell’impresa e agricoltura green potranno spingere le istituzioni a tutti i livelli a rinunciare alla loro persistente dipendenza fossile e a realizzare pienamente il Patto verde europeo.

Più e meglio della NATO è questa la migliore garanzia di sicurezza per l’Europa.