Ho già avuto modo di definire il COVID una patologia selettiva dal punto di vista anagrafico e sociale, nel senso di letale soprattutto per anziani e persone interessate da patologie importanti. Non c’è ancora sufficiente distanza critica per poter trarre delle conclusioni o verificare quanto sostengo: ci vorranno anni di analisi per esprimere un giudizio affidabile sui dati ancora in corso di raccolta, che dovranno essere valutati con parametri diversi e incrociati tra loro.

Un commento è però consentito alla luce della notizia, battuta da un’agenzia di stampa il 15 febbraio scorso, secondo cui INPS avrebbe risparmiato già 1.2 miliardi di euro e si accinge a beneficiare di una sopravvenienza attiva di quasi 12 miliardi nei prossimi anni.

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La cosa non consola nonostante si dica che non tutto il male viene per nuocere, il male crea sempre comunque un danno maggiore e non ci si può consolare per questo collateral del COVID: il default del nostro Istituto nazionale di previdenza è solo rinviato.

Viene piuttosto da chiedersi se il “beneficio” non dimostri quanto vecchia sia la società italiana tanto più se teniamo a mente il dato sulla crescita ZERO intorno alla quale il nostro Paese danza da almeno un decennio.

L’invecchiamento della società italiana si percepisce in modo eclatante nell’età media della nostra classe politica e dei titolari delle tantissime Istituzioni amministrative, giudiziarie e imprenditoriali. L’anzianità inoltrata dei vertici delle strutture socio-economiche italiane non è recente ma tipica da sempre nel nostro Paese.

Quando nel 1983, a soli trent’anni, fui nominato, col placet dell’allora presidente del Consiglio, commissario della più grande azienda armatoriale privata, che era fallita, la decisione creò reazioni sopra le righe addirittura superiori a quelle di qualche anno prima per la nomina di Vittorio Barattieri, appena trentacinquenne, alla direzione generale della produzione industriale del ministero dell’Industria (oggi ministero dello Sviluppo Economico). Da quegli anni 70/80 non è cambiato nulla, anzi la situazione peggiorata, visto che gli “eccessi di fiducia” nei giovani, come qualcuno definì quelle nomine, sono uniche non rare.

In Parlamento qualcosa era sembrato muoversi grazie al Movimento 5 Stelle ma ora che l’annunciata rivoluzione è abortita e la sua classe dirigente normalizzata, si annuncia una stagione di restaurazione. Del resto l’anzianità non sempre è sinonimo di saggezza nè la giovinezza di qualità. Le nuove leve approdate in Parlamento e nei Governi delle ultime due Legislature, non si sono dimostrate all’altezza e non li giustifica di aver potuto fare un giro sulla giostra per la scarsa capacità di selezione dei loro mentori.

Sono considerazioni ovvie ma corroborate dai dati secondo cui la maggior parte dei nostri talenti lasciano il Paese e solo lo 0,x % è disposto a rientrare, causa la patologica mancanza di coraggio a rischiare “eccessi di fiducia”.

Il lavoro in Italia scarseggia per tutti e comunque gli incarichi di responsabilità sono monopolio degli over 60 (in molti casi sono over 70), così, non importa quanto talentuoso abbia dimostrato di essere un giovane, dovrà sempre partire da “piccionaia” e decreti ingiuntivi se ha vinto il concorso in Avvocatura dello Stato; dalle sedi disagiate e sotto la tutela di un anziano se ha vinto quello in magistratura; da fotocopie e sistemazione dei fascicoli in una qualunque altra amministrazione e azienda pubblica. Nel privato va anche peggio.

In Italia la carriera non segue il principio del merito ma dell’anzianità di servizio; il talento continua difatti a spaventare in quanto differenza che crea disuguaglianza e avvantaggia chi lo possiede.

Diversamente dal motto secolare, in questo caso, il pesce puzza dalla coda.

Negli ultimi cinquant’anni il capitalismo è diventato globale e il sistema di welfare versa in una crisi senza uscita eppure scuola e università italiane continuano ad ispirarsi alla cultura dell’istruzione elaborata un secolo fa da Don Milani a Barbiana: riscatto delle classi povere e redini al talento, perché nessuno deve restare indietro.

Circa 15 anni fa un mio ex compagno di banco al liceo iscrisse suo figlio ad una scuola americana. Una volta arrivato agli anni della high school, il ragazzo iniziò a perdere il passo col programma. La preside della scuola chiamò il mio amico e lo consigliò di trasferire il figlio ad un’altra scuola. Se una cosa del genere fosse capitata in una qualunque altra scuola ad un qualunque altro genitore, ne sarebbe nato un caso nazionale. Ma il mio compagno di classe, valente giornalista qual era ed è, seguì il consiglio e oggi il figlio è comunque realizzato. Di contro: un luminare di medicina cui ero legato perché amico di mio padre e mi aveva tolto dai guai operandomi d’urgenza quando avevo vent’anni, mi confidò che all’esame di Stato, della cui commissione spesso era presidente arrivava anche gente spaesata. Alla mia domanda sul perché non rifiutasse il titolo mi rispose che nessuno della commissione se la sarebbe sentita di bocciare uno studente comunque laureato dopo sei anni di studio. Come giudicarlo di fronte al 18 politico e gli esami di gruppo che impazzavano negli anni 70 a giurisprudenza, lettere, architettura.

Don Milani non immaginava che Barbiana avrebbe condotto a tutto ciò, così come Heghel di poter ispirare i Demoni del 20º secolo: fascismo e comunismo.

Le chances che nostri giovani di talento hanno di lavorare per il nostro Paese nel nostro Paese, sono inesistenti. E anche se il gap di competitività del nostro sistema di istruzione, rispetto a quello degli altri Paesi, può essere colmato dal talento di questi ragazzi e dalle crescenti possibilità di studiare negli altri Paesi UE, non possiamo fare nulla di fronte alla frustrazione che provano quando si accorgono di non essere valutati esclusivamente per capacità possedute e risultati ottenuti, per giunta da over 70 con nessuna voglia di mettersi da parte per fare loro spazio.

Nemmeno 10 anni fa un giovane laureato alla Bocconi, di mia personale conoscenza, vinse il concorso per giovani laureati lanciato dalla sede italiana di un famoso studio legale internazionale ma declinò l’offerta di lavorare per loro: in G.B. uno studio concorrente gli aveva offerto molto di più per lo stesso lavoro e garanzie di progressioni di carriera impensabili in Italia. Viceversa un’importante casa di alta moda italiana con base a Milano, ha da poco assunto una connazionale per un incarico di top manager soffiandola ad una casa di moda inglese dove si era fatta le ossa per diversi anni. Immagino lo scompiglio dei tardoni che si aspettavano quel posto per anzianità di servizio, (loro la chiamano esperienza) e hanno ceduto solo perché “straniera”.

Età dei due interessati 33 anni, un’età alla quale da noi ci si mette in riga agli ordini del 50enne di turno che probabilmente parla il social english.

Potrei continuare a lungo magari prendendo spunto dai due figli trentenni di un costruttore romano ritiratosi, a metà anni 90, perché  depresso dai metodi di lavoro da seguire, i quali oggi sono money manager di due istituti finanziari internazionali con responsabilità da dirigenti.

Ma a che servirebbe, questi ragazzi, ora uomini, li abbiamo persi da adolescenti e ora finiranno probabilmente per accettare l’offerta di diventare cittadini del Paese che li ha adottati e valorizzati e magari per arricchire la loro classe politica. Le Nazioni anglosassoni puntano difatti sempre più a imporsi come “imperi del pensiero”, come invitava Churchill dopo la fine della 2WW.

La seconda presidenza Mattarella non aveva alternative una volta che i partiti, tutti i partiti, erano giunti alla conclusione che Draghi avrebbe importato la loro espulsione dalle stanze del potere. Questo lascia poco spazio alla speranza ma molto alla fantasia.

Il presidente della Repubblica una volta noti i risultati delle prossime Politiche, non avrà altro a sua disposizione, a meno che con un atto di coraggio estremo non ci indirizzi alla riforma profonda del Titolo I° della Costituzione, cosa che non è più un’urgenza ma una emergenza.

Un PS sugli “eccessi di fiducia” di cui ho parlato.

Vittorio Barattieri fu beneficiato per aver scoperto che l’importo del debito pubblico italiano, appena annunciato, era errato: mancava qualche zero alla fine; il sottoscritto perché  abbastanza giovane per rischiare iniziative e decisioni da cui i due predecessori, manager e professionista affermati, si erano guardati. Mi è chiaro solo ora riguardando alcune carte avendo deciso di ripercorrere in un libro quella esperienza nata dal desiderio dell’allora presidente del Consiglio che non voleva un napoletano alla guida dell’azienda napoletana.

L’esperienza fu unica perché divenne il primo campo di battaglia tra Politica e Magistratura e coinvolse alcuni vertici della magistratura giudicante e poi causa involontaria di una crisi internazionale dai contorni enigmatici.

Quell’esperienza occupò i miei migliori anni, dai 30 ai 39, e per molti aspetti fu drammatica ma mai tragica, come dimostra il suo esito. Ogni giovane dovrebbe avere occasioni come quella, personalmente l’auguro a tutti i giovani che se la sentono di mettersi in gioco e invito chi può offrirla di “eccedere nella fiducia” nei nostri giovani.