Il mancato ottenimento del quorum di validità dei cinque referendum sulla giustizia, il cui voto si è avuto lo scorso 12 giugno, offre l’opportunità di riflettere sia sull’istituto referendario in generale, che sulla materia portata, di volta in volta, alla attenzione dei cittadini.

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Come è noto in Italia, esistono due diverse tipologie di referendum, il primo, di natura confermativa, non necessitante di un quorum di validità, previsto dal secondo comma dell’articolo 138 della nostra Costituzione, nell’ipotesi in cui la legge di revisione della Costituzione non abbia ottenuto, nel secondo passaggio alle Camere, la maggioranza qualificata dei due terzi dei parlamentari.

Altra tipologia di referendum è quella di natura abrogativa che si colloca accanto ad altre ipotesi di coinvolgimento popolare (quale, ad esempio, la proposta di legge di iniziativa popolare), per la quale è previsto un quorum di validità, pari al 50% più 1 dei cittadini aventi diritto al voto.

Quest’ultima ipotesi referendaria, poiché si basa su un criterio “amputativo” della normativa preesistente, deve avere attenzione che la norma residuale, scaturente dall’esito positivo del referendum, non perda la sua funzionalità e sia compatibile con il sistema normativo nella quale va ad inserirsi.

Alla luce di queste prime riflessioni, appare evidente che mentre per il referendum confermativo, non è sorta, nel tempo, alcuna problematica, se non quella di comprendere la complessità della materia portata alla attenzione dei cittadini, non sempre di facile lettura; per il referendum abrogativo si pone il problema che l’individuazione del quorum di validità è stata effettuata alla fine degli Sessanta quando la percentuale degli elettori che esprimevano il proprio voto, era altissima anche perché il voto era considerato un dovere dei cittadini, passibile, se non esercitato, di sanzioni. Nel tempo, come è noto, la percentuale dei votanti è sempre diminuita, fino a divenire di poco superiore al 50% degli aventi diritto al voto.

Peraltro, tale fenomeno, non è esclusivo nel nostro Paese ma è proprio delle democrazie occidentali. Invero, sia l’elezione dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, nel 2020, che quella del Presidente francese, nel 2022, sono intervenute con una percentuale di votanti estremamente ridotta rispetto agli aventi diritto al voto.

Alla luce di queste prime considerazioni, dovrebbe, dunque, rimeditarsi il quorum di validità del referendum abrogativo, se si ritiene di doverlo mantenere in vita.

A mio avviso sarebbe auspicabile l’aumento del numero delle firme necessarie per sottoporre a referendum abrogativo alcune norme, attuando anche un più rigido e puntuale controllo sulla raccolta delle firme, ed abolire il quorum di validità del voto o al massimo ridurlo a quello del 50% + 1 della percentuale nazionale dei votanti riscontratasi nell’ultimo decennio, per le elezioni europee politiche e per quelle regionali.

Fatta questa premessa, di ordine generale, è ora necessario fermare l’attenzione sulla materia, ripartita in più colorazioni applicative, che è stata oggetto dell’ultima consultazione referendaria: quella della giustizia, affidata, come si è detto in precedenza, ad una operazione, sia pure chirurgica, di amputazione (o di totale abrogazione) della normativa preesistente.

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Il tema della giustizia ed in particolare della tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi dei cittadini è uno dei punti fondamentali della nostra Carta costituzionale (art. 24 Cost.). Nel patto tra Cittadini ed Istituzioni la giustizia integra l’elemento principale della società civile. Con l’articolo 111 della Costituzione lo Stato è impegnato ad erogare la tutela mediante “giusto processo”, in un tempo ragionevole, nel rispetto del contraddittorio. Detto giusto processo deve essere gestito da un giudice terzo ed imparziale, precostituito per legge (art. 25 Cost.), il cui operato va valutato, alla luce del controllo esercitabile sulla sua attività, in virtù della analisi della motivazione delle sentenze, che consente un controllo di logicità sull’operato del giudice stesso, attraverso il sistema delle impugnazioni (di merito e di legittimità).

Se questo è l’impianto costituzionale della tutela, in particolare della tutela civile (che fa meno notizia, ma che incide in modo rilevante sugli interessi personalissimi ed economici dei cittadini e delle imprese) è indubbio che esso non è, attualmente, in grado di rispondere efficacemente alle esigenze di detti fruitori del servizio nazionali ed esteri. Pertanto, è necessaria una profonda riforma del nostro “sistema giustizia” per portarlo ai livelli dei servizi offerti in materia dagli altri Paesi membri dell’Unione europea.

Il P.N.R.R., avendo tra i suoi principali obiettivi la funzionalità della giustizia, costituisce l’occasione per approntare una ampia riforma del sistema della tutela, investendo su di esso, al fine di mettere in grado la giustizia di utilizzare al meglio le tecnologie, pur nel rispetto del diritto alla difesa.

Invero, tutte le ultime riforme della macchina processuale, essendo state fatte a costo zero, hanno prodotto un risultato insignificante, analogo al costo.

Potendo, ora, investire i denari del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sulla funzionalità della giustizia, è auspicabile che ne possa scaturire una riforma della tutela dei cittadini, idonea a fornire una migliore sistematica e funzionalità del suo impianto nell’interesse della Collettività.

La legge n. 206, del 2021, ha dettato interessanti deleghe, da attuarsi entro il 2022, in tema di giustizia civile: in precedenza era già stata emanata la delega all’Esecutivo per la riforma del processo penale (L. del 24 settembre 2021, n. 134) ed il 17 maggio 2022 il Consiglio dei Ministri si è occupato della riforma del processo tributario (altro punto assai dolente del nostro ordinamento giudiziario).

In questo quadro di riforme (che si occupano anche: di soluzioni alternative al giudizio (ADR); di Ordinamento giudiziario e di regole per il funzionamento del Consiglio  Superiore della Magistratura), sommariamente descritto, si collocano i cinque referendum sulla giustizia, che sono stati portati alla attenzione dei cittadini il 12 giugno scorso e che avevano, in precedenza, superato il vaglio della Corte Costituzionale (come è noto il referendum proposto in tema di responsabilità dei magistrati non è stato promosso dall’esame dei Giudici della legittimità delle leggi).

Come detto il referendum, che non ha ottenuto il quorum il 12 giugno, è di natura abrogativa, esso cioè incide sul sistema operando dei tagli all’impianto normativo vigente con l’accortezza di produrre, poi, un sistema idoneo a funzionare, ma pur sempre frutto di amputazioni. Pertanto, ritengo che detto modo di procedere non poteva essere utile all’ordinamento giudiziario che, invece, necessita di riforme organiche e coordinate per accrescerne la sua efficacia e la sua funzionalità. Tali riforme, come si è detto, sono già all’attenzione del Parlamento o dell’Esecutivo da esso delegato ed alcuni dei decreti legislativi, in fase di emanazione, andranno a regolare, in parte, la materia su cui si voleva intervenire mediante referendum abrogativo.

Espresso, dunque, il giudizio generale di sistema, veniamo ora all’analisi dei cinque quesiti referendari, che pur non avendo raggiunto il quorum di validità, restano indicativi, per gli studiosi ed in ogni caso, dovranno essere di stimolo al Legislatore per offrire soluzioni concrete a problemi che hanno sollevato l’attenzione dei cittadini, attraverso la raccolta delle firme e la successiva consultazione referendaria.

Il primo ed il secondo dei quesiti referendari, aventi ad oggetto la valutazione dei giudici, in un previo giudizio del Consiglio Giudiziario ed il numero delle firme necessarie per la presentazione della candidatura alle elezioni per il C.S.M., erano e restano meramente coreografici in quanto privi di ogni ricaduta, di natura concreta, sul sistema giustizia. Basti pensare che il giudizio disciplinare e la valutazione dell’operato dei giudici sono di competenza del C.S.M., per nulla vincolato da ciò che, preliminarmente, fanno i vari Consigli giudiziari, sedenti presso tutte le Corti d’appello. Analogamente non risolve lo scottante tema della “correntizzazione” della Magistratura, il numero delle firme raccolte per presentare la propria candidatura al Consiglio Superiore. Invero, chi non è in grado di raccogliere neppure 25 firme di colleghi per potersi candidare, non avrà poi alcuna possibilità di elezione al Consiglio Superiore.

È auspicabile, invece, che tale tema, assai rilevante per la funzione giurisdizionale del nostro Paese, venga regolato da una specifica legge in modo organico, avendo particolare attenzione all’impianto costituzionale, che regola la natura e le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, al fine di garantire l’indipendenza dei Magistrati ed evitare che la stessa sia intaccata dal potere politico.

Invero, i temi sollevati dai quesiti referendari sono importanti, ma le soluzioni che potevano perseguirsi attraverso l’esito positivo della consultazione referendaria erano prive di ogni rilevanza concreta.

Paola Severino, foto di Tommaso Tani – licenza CC BY-SA 2.0.

Di contro apparivano pericolose e fuorvianti le ipotesi offerte dai quesiti referendari riguardanti l’abolizione della “legge Severino” e la modifica delle regole in tema di misure cautelari in sede penale.

Pericolose e fuorvianti poiché con il referendum abrogativo avrebbe potuto esser travolta una serie di statuizioni, in particolare relative alle misure cautelari di natura personale (quale l’allontanamento),  che sarebbe stato molto pericoloso rimuovere dal sistema della tutela preventiva. Inoltre, la totale abrogazione della “legge Severino” avrebbe potuto comportare pericolose conseguenze. Sulle materie trattate da questi quesiti referendari è giusto ed opportuno che il Legislatore intervenga, facendo propria la preoccupazione formulata con i quesiti referendari, ma tale intervento deve essere organico e funzionale al sistema e soprattutto deve evitare le conseguenze gravi che sarebbero derivate dall’accoglimento dei quesiti referendari a causa della  natura abrogativa di quella consultazione popolare.

Resta il quesito referendario in materia di separazione delle funzioni tra magistratura giudicante e magistratura inquirente. Il tema proposto dal quesito è condivisibile ed al fine di attuare la piena terzietà dei giudici, nel campo penale, appare assai utile che tale separazione venga regolata, tuttavia, dette norme non potevano essere il prodotto di una operazione di amputazione dell’attuale normativa, ma ad esse dovrà giungersi a seguito di un ampio riordino dell’ordinamento giudiziario nel nostro Paese. Sarebbe opportuno iniziare a ragionare su una effettiva separazione delle carriere selezionando la Magistratura giudicante e quella requirente con concorsi separati, senza alcuna possibilità di scambio di ruolo tra i vincitori di un concorso e dell’altro. In tal modo, si porrebbe fine anche alla suggestione di “colleganza” tra magistratura giudicante e pubblico ministero inquirente, che può, sia pure inconsciamente, far venire meno il presupposto costituzionale della terzietà dei giudici.

In definitiva se la raccolta di firme, per indire i referendum in tema di giustizia, ha avuto il merito di fermare l’attenzione sul problema della tutela accordata ai cittadini nel nostro Paese, tuttavia non era lo strumento referendario, quello idoneo a consentire le profonde riforme del sistema giustizia in Italia.

E’ auspicabile che il movimento di opinioni suscitato dalla campagna referendaria sia ora di stimolo al Parlamento, in grado di usare anche i fondi del P.N.R.R., per dar vita ad una riforma  dell’Ordinamento giudiziario e della tutela. Riforma in grado di portare la risposta alla domanda di giustizia, avanzata dai cittadini e dalle imprese, al livello di quella fornita dagli altri Stati membri dell’Unione Europea, sotto il profilo della indipendenza dei giudici, della qualità dei giudizi e dei tempi di emanazione delle sentenze definitive.

 

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