Che debba essere operata una seria e radicale riforma del sistema tributario italiano è ormai riconosciuto da tutti, compresi il governo e l’Unione Europea. Riforma che deve tendere a realizzare tre obiettivi fondamentali:

a) rendere più equo e perequato il prelievo fiscale, attraverso un corretto e tollerabile mix di imposte dirette (specie Irpef e Ires), indirette (specie Iva e Registro) e sul patrimonio (specie Imu e Imposte sulle successioni e donazioni);

b) non scoraggiare i soggetti – persone fisiche e giuridiche – esercenti attività svolte sui mercati internazionali a mantenere le proprie sedi in Italia;

c) incentivare i soggetti stranieri a stabilire in Italia le sedi delle loro attività nel nostro Paese e, ancor più, nel continente europeo.

L’obiettivo sub a) non potrà iniziare ad essere perseguito fin quando un terzo del PIL resterà sottratto alla tassazione – essendo frutto di attività malavitose o comunque occultato dall’evasione fiscale – e il gettito tributario farà carico ai soli percettori dei redditi costituenti i restanti due terzi del PIL. Una volta che lo Stato si sarà dimostrato capace di far emergere – con ogni mezzo a sua disposizione, compreso un massiccio impiego delle forze dell’ordine – la materia imponibile che ancora sfugge al prelievo, la riduzione dell’onere fiscale a carico di coloro che attualmente pagano le tasse sarà in re ipsa. Ma prima di allora ogni ipotesi di riforma basata sulla situazione attuale – gravemente sperequata a danno dei contribuenti onesti – dovrà interpretarsi alla stregua di una rinunzia ad attrarre a tassazione l’ingente reddito ora sommerso.

Per raggiungere gli altri due obiettivi è invece necessaria una riforma di fondo. Al momento i residenti in Italia pagano le imposte sui redditi ovunque prodotti – c.d. sistema worldwide – mentre i non residenti le pagano unicamente sui redditi prodotti nel territorio dello Stato (art. 3, co. 1, t.u.i.r.). Ciò significa che se, ad esempio, un imprenditore o una società residenti producono redditi in parte in Italia e in parte in Svizzera sono tenuti a pagare le imposte in Svizzera sui redditi ivi prodotti e a pagarle altresì in Italia sui redditi prodotti sia qui che in Svizzera.

Per i redditi prodotti all’estero si verifica così una “doppia imposizione”, per eliminare i cui effetti distorsivi deve farsi ricorso alle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Con due inconvenienti, però: 1) che l’Italia non ha stipulato simili convenzioni con tutti gli Stati esteri; 2) e che la restituzione al contribuente di quanto pagato in eccesso è affidata a procedure di rimborso piuttosto lente e farraginose, che dipendono dalla maggiore o minore efficienza organizzativa delle amministrazioni finanziarie dei diversi Paesi. La Svizzera, appena citata, suole provvedere a tali rimborsi in due o tre mesi; altri Stati impiegano anche anni.

Conseguenza di ciò è l’esodo dall’Italia di gran parte degli operatori con l’estero, avvenuto nel tempo. Si pensi soltanto, sempre a puro titolo esemplificativo, al settore dello shipping. Moltissimi fra gli agenti e raccomandatari marittimi, fra i broker di navi e di assicurazioni marittime italiani e simili, che operavano dall’Italia in tutto il mondo, si sono trasferiti a Londra, a Montecarlo, a Ginevra e perfino a Lugano, dove non c’è neanche il mare, e in quei luoghi molti connazionali vivono, lavorano, fanno i loro acquisti, pagano le imposte e, se va bene, tornano in Italia per il week-end o per trascorrere le vacanze. E si pensi altresì a tutte le importanti società italiane che hanno dislocato le loro sedi e/o i loro domicili fiscali a Londra, ad Amsterdam o in Lussemburgo, dalla Fca (ex Fiat ed ora Stellantis), alla Exor, alla Ferrari, alla Cementir, alla Ferrero International, alla Campari, a Mediaset ed altre.

E, di contro, per lo stesso motivo, gli operatori stranieri, in particolare le società multinazionali, si tengono alla larga dall’Italia e basano altrove le sedi delle loro holding o sub-holding europee (nel Benelux, nel Regno Unito, perfino in Francia e in Germania che non sono certo dei tax heavens) per evitare il rischio che il Fisco italiano, mediante un distorto accertamento di “stabili organizzazioni” in realtà inesistenti, tenti di qualificare come residenti tali operatori pretendendo di assoggettarli all’imposizione worldwide. Questa è stata la conclusione del leading case della Philip Morris, la quale – dopo aver pagato (a torto e peccato) una forte imposta e una cospicua ammenda – ha salutato il “bel paese” e ha fatto rotta alla volta della Germania, seguita da altri gruppi statunitensi.

In fondo, il sistema worldwide pochi Stati se lo possono permettere: Stati forti, con capacità accertatrice/investigatrice di ciò che

Il problema della tassazione delle grandi tech companies è sempre più pressante- Foto via Pixabay 

avviene quasi in ogni parte del mondo, quali appunto gli U.S.A.; ma non certo l’Italia, che non è neanche capace di accertare i redditi prodotti al suo interno (fra cui gli ingenti redditi di mafia, camorra e ’ndrangheta), figuriamoci quelli prodotti all’estero. Ci sarebbe da considerarsi già molto soddisfatti se il nostro Fisco riuscisse a far pagare le imposte sui cospicui redditi prodotti in Italia da giganti commerciali, specie – ma non solo – nel settore dell’economia digitale, quali Amazon, Microsoft, Facebook, Google e simili, che oggi sembrerebbero eludere gran parte della tassazione sull’attività esercitata nel Paese.

In conclusione: non pretendiamo di essere più grandi e più potenti di quanto in realtà non siamo. Lasciamo perdere il sistema worldwide – non lo ha il Regno Unito, non vedo perché dobbiamo tenerlo noi – e preoccupiamoci piuttosto di riuscire a far pagare ai contribuenti, residenti e non, le tasse sui redditi prodotti nel territorio dello Stato. Sarebbe già un ottimo risultato, che sortirebbe inoltre l’auspicabile effetto di mantenere – o, se si preferisce, di reinserire – il nostro Paese nel preminente circuito internazionale dell’industria, del commercio, dei servizi e della finanza.