Non certo d’una estensione affettiva tratta l’antologia poetica Amo, ergo sum di Nikifóros Vrettákos dato alle stampe da Multimedia in un tormentato 2021; piuttosto essa ne rivela quella continua distillazione operata dal poeta nell’intimo delle sue passioni, mai scisse dall’alto senso civile caratterizzando l’impervio cammino del suo corpus creativo.

Nikiforos Vrettakos

Qui, nella traduzione di Vincenzo Rotolo e lungo la dinamica critica che si agita nella prefazione di Maria Caracausi, ecco riaffiorare una sorta di empatia trascinatrice in cui il verso che tutto avvolge (e tale viluppo attiene all’esistenza e al suo coinvolgimento con la crudezza della realtà) esprime – a fronte del titolo speziato di cartesianesimo – l’inderogabile andamento locutorio ben stanziato sull’indubitabilità dell’essere disperatamente un soggetto, malgré tout, aperto all’amore. Ed è proprio la forte quota espressiva di tale sentimento a vincere, com’egli asserisce, la ferinità della stessa morte.

Un frantume di pensiero si espande in modo perpetuo da Vrettákos, accostato a quella corsia parallela praticata dal saggista e poeta ebreo-algerino Nathan André Chouraqui, il quale pone l’accento, munito d’una precipua vitalistica veemenza (nel suo scritto Forte come la morte è l’amore), non tanto sul superamento quanto sull’ineluttabile simmetria tra morte e amore. Comunque è chiaro come l’approdo finale del concetto sancisca, in ambedue le affermazioni, la potenza ineludibile del bene elargito al mondo.

Così in Vrettákos affiora, rileggendo La profondità del mondo, la biogenesi del suo fare poetico divaricato in una franca tripartizione: tra quanto ci circonda e avvince e i dispersi sentimenti posti a ventaglio nell’umano cosmo, in un continuo e vorace attingere nel catino colmo degli amori e dei dolori. Egli traccia e lancia, nell’intensità del testo “Preghiera”, l’accorato grido e il singhiozzo speranzoso in cui, volto al Signore, lo invoca: «Guardami / come insisto dietro le orbite / delle tue ultime creature! / È vano / che tu mi affatichi di più! / Lasciami / con fiato tranquillo sotto la pergola / delle tue stelle piangere… Non posso / mio Signore, odiare! Amami!».

La richiesta di tale amore si fa aspra proprio nell’insensato nutrirsi della violenza per una guerra vissuta e che tenta di stravolgere e cancellare le cose amate assurte a emblemi sacri, e gli uomini a icone del quotidiano. In tal modo nel paesaggio umano della “città fiabesca” egli annota come proprio le «voci cambiavano suono. La musica parlava di cose non / successe. / Il sole si faceva triste.» Tutto, dunque, va perdendosi: la città, gli agnelli, il bosco. Il poeta di Krokeès, vissuto a Palermo dal 1970 al 1974 – «in volontario esilio da quella che nella storia della criminologia è passata come “dittatura dei colonnelli” (1967-1974)», – lo ricorda Salvatore Nicosia, il quale ne trasse un sodalizio umano e intellettuale, riportato nella cura del suo Nikifóros Vrettákos. Un grande poeta greco esule a Palermo (2020), – accoglie in sé la fortezza del monte Taigeto tanto da far dichiarare al poeta: «mi ha irrorato di azzurro, di aspro sangue, sole e verde / fino a temprarmi l’anima come la sua pietra / fino a incidere nel mio cuore i suoi profondi burroni».

Tra i suoi accorati versi scritti nel 1991, anno della sua scomparsa, in “Sono un vecchio…” è proprio l’assenza di qualche scatto giambico che ha caratterizzato larga parte del suo vissuto poetico e biologico ad offrirci maggiore ponderabilità alla parola, al sentimento schietto, in cui già l’incipit “Sono un vecchio e sono un bambino” offre quell’ilomorfica fusione di forma-contenuto; il fanciullo, aristotelicamente vita potenziale, è ripreso per mano da Vrettákos; il vecchio, invece, è consapevole che ciò che ha fatto è fatto: d’altronde la “bottiglia l’ho già gettata”, afferma. Rimane intatto l’aereo stupore del bimbo che osserva la cima del monte e il firmamento: la sua rivelatrice “bibbia di musica”.

 

Nikifóros Vrettákos (Krokeès, 1911-Atene 1991) grande poeta greco del Novecento è vissuto in esilio durante la dittatura dei colonnelli. Tra le sue opere di poesia: ῾Οδοιπορία (Itinerario, 3 voll., 1972); Διαμαρτυρία (Protesta, 1974); Απογευατινὸ ἡλιοτρόπιο (Eliotropio pomeridiano, 1977); Λειτουργία κάτω ἀπὸ τὴν ᾿Ακρόπολη (Liturgia sotto l’Acropoli, 1981), e il romanzo autobiografico ᾿Οδύνη (Dolore, 1969).

Due poesie tradotte da Vincenzo Rotolo

 

Se non mi avessi dato la poesia, Signore

 

Se non mi avessi dato la poesia, Signore,
non avrei nulla per vivere.
Questi campi non sarebbero miei.
Mentre ora ho avuto la fortuna di possedere meli,
di fare spuntare rami dalle mie pietre,
riempire di sole il cavo delle mie mani
di gente il mio deserto,
di usignoli i miei giardini.

Allora, come ti sembra? Hai visto
le mie messi, Signore? Hai visto le mie viti?
Hai visto come cade bene la luce
sulle mie valli serene?
Ed ho ancora tempo!
Non ho dissodato tutto il mio territorio, Signore.
Il mio dolore mi scava a fondo e il mio lotto aumenta.
Prodigo il mio riso come pane che si spartisce.

Tuttavia,
non spendo a torto il tuo sole.
Non getto neanche una briciola di ciò che mi dai.
Perché penso alla solitudine e agli acquazzoni dell’inverno.
Perché verrà la mia sera. Perché giunge fra poco
la mia sera, Signore, e prima di andarmene
devo avere fatto della mia capanna una chiesa
per i pastori dell’amore.

 

Viaggio in Sicilia

 

Fra poco da molli colline potrò

guardare occhi negli occhi il mare,

come a riconoscerci dopo lunga assenza.

E intanto di fronte, sull’altra sponda,

saprò che si trova la mia patria.

Non si scorgeranno le sue luci

e neppure il fumo delle sue case.

Ma almeno, guardando il moto delle acque,

mi parrà di vedere il palpito del suo cuore.