Raffronto due immagini: il rosso casolare al centro del podere semisommerso dall’acque (veduta d’impronta pascoliana che non a caso sollecita in TV la raccolta fondi per l’Emilia-Romagna) e quella aerea, diffusa in alcuni quotidiani o pagine on-line, che inquadra un modernissimo stabilimento, circondato da appezzamenti ordinatamente coltivati, entrambi sommersi dall’acque nere a Conselice. Due realtà non antitetiche ma complementari: antica, secolare tradizione agricola e segni ben concreti della più avanzata tecnologia. Le immagini rappresentano due icone del grande tema ambientale non contrastive tuttavia se alle fotografie post-alluvione si sovrappongono quelle ex-ante: tradizione e modernità integrate, coesistenti, parimenti volte allo sviluppo socio-economico del territorio che nel caso di specie rappresenta l’area tra le più avanzate e produttive nel campo agricolo e dell’ortofrutta come pure delle tecnologie alimentari. E non solo: perché a Conselice è stata colpita anche un’altra realtà innovativa, semisommersa anch’essa, mirata da anni a realizzare prodotti derivati dall’economia circolare ovvero la produzione di un aggregato artificiale (brevettato) per l’edilizia ricavato dalla selezione, estrazione, lavorazione di residui dei termovalorizzatori, residui ricavati da RSU.

Allagamento a Sant’Agata sul Santerno (RA) – Foto da wikipedia.org – CC BY-SA 4.0

Allontaniamoci dalla drammaticità delle icone semicoperte dall’acque stagnanti e tentiamo di analizzare il fenomeno della coesistenza, nel medesimo territorio, di tradizione e innovazione presupponendo che il casolare e il podere pascoliani siano rimasti tali cioè attardati a sistemi di coltivazione e produzione agricola ottocenteschi: cosa che personalmente non credo. Il casolare e il podere di pascoliana memoria è posto in un contesto fiore all’occhiello dell’agricoltura intensiva, industrializzata e razionalizzata nell’intento (riuscito) di ottenere una produzione agricola ed ortofrutticola redditizia cioè su vasta scala.

Del resto perché, potremmo chiederci, è sorto a Maccarese un centro di coltivazione del mandorlo (220.000 piante) più ampio d’Italia (180 ettari piantumati)? Un centro di coltivazione superintensiva e con uso di antiparassitari “limitato”? Per consentire ai visitatori di ammirare la distesa in fioritura? Perché redditizio, almeno ora che le mandorle da sgranocchiare fuori pasto sono diventate di gran moda in quanto “salutistiche” ed essendo la mandorla a capo di una filiera produttiva dolciaria, di bevande, di cosmetica et alia di rilevante interesse economico nazionale (e non solo).

Esistono per fortuna altre realtà sotterranee che pian piano si affermano, anche in Emilia Romagna: una solida rete rurale che invece è rivolta all’agricoltura di eccellenza, “speciale” in quanto spesso dedicata alla riscoperta e valorizzazione di una produzione agricola dimenticata sebbene antica e storicamente legata al territorio. La cui redditività è nelle mani di noialtri consumatori direttamente in quanto questa fitta rete rurale o come li chiamo io di archeoagricoltori spesso giovani anagraficamente, si appoggia e si sostiene grazie alle formidabili risorse della rete effettuando vendite dirette on line oppure ci è vicina in quanto possiamo effettuare acquisti a Km0.

Ma vado alla seconda icona, quella industriale. Lo stabilimento di Conselice è il frutto di una storia (di 40 anni) tutta italiana, il punto d’arrivo di un ingegnoso protagonista della crescita socio-economica di quell’area, partito da una piccola azienda dedicata alla trasformazione di oli e grassi alimentari che è andata, lungo gli anni, ad ampliare il raggio produttivo in campi specifici ma di centrale interesse per il settore alimentare: interesse di mercato ovviamente e lo dico in senso positivo perché la filiera alimentare è strategica e non solo perché ha appiccicato il bollino del Made in Italy a vanto e orgoglio del gastronazionalismo alimentare nostrano. Dato che viviamo un’economia di guerra, consideriamo che non certo uno spazio marginale in termini di occupazione ha questa particolare tecno industria alimentare che ha sede a Conselice ma dotata di impianti produttivi in Malesia e in Brasile come pure di una Azienda Agricola di circa 120.000 ettari in Romania, dei quali 3.400 certificati “biologici” (un po’ pochi ma meglio di niente). Lo stabilimento (oggi mentre scrivo in fase di prosciugamento e le acque stagnanti parrebbero non contaminate) è il centro di una raggiera produttiva estesa: grazie alle più moderne e avanzate tecnologie alimentari (da non demonizzare: sono “certificate”) si irradiano prodotti (bell’e pronti) a base di grasso vegetale per la panificazione, la pizzeria, la pasticceria, la gelateria, la cioccolateria, le bevande (“bio”) sia semiartigianali che per l’Ho.Re.Ca. Una filiera estesa che da lì diparte per arrestarsi al cornetto vegano da noi inzuppato o meno al bar o al pezzo di pizza al taglio, al panettone, al gelato. Insomma: dall’icona della modernità industriale vengono prodotti ingredienti tra i “più importanti per il tuo business” come recita lo slogan aziendale rivolto a panificatori, pizzaioli, pasticceri, gelatieri ed a chi è a capo di relativi marchi commerciali della GDO.

Casalecchio di Reno, Fiume Reno – Foto da wikipedia.org – CC BY-SA 4.0

Il fatto è che il business non sempre tien conto della storia, della conformazione geografica, idrografica, climatica del territorio, nel caso specifico uno dei più complessi da studiare quando la geografia si apprendeva sulla cosiddetta “cartina muta” e col ditino bisognava seguire il corso del Reno e del Sillaro e del Santerno. O, che so io, quando si studiavano pagine di storia medievale e rinascimentale (ma anche Ariosto) ormai ritenute inutile zavorra (speriamo non nel futuro Liceo del Made in Italy) e fors’anche pagine di storia legate ai combattimenti del settembre 1944 con Kesserling e le sue truppe assestate lungo il Santerno, il Sillaro e il Senio. Il business non tiene conto della storia dei luoghi, dell’alluvione del dicembre 1959 a Conselice data la rottura degli argini o quella di Imola nel 2014. Non tiene conto che nella storia del territorio lungo i secoli sono stati effettuati lavori di bonifica idraulica e non già solo per contenere il flusso delle acque del Reno ma anche per rendere in estate o in stagioni di siccità irrigue le pianure dunque idonee alla coltivazione. Il canale in destra del Reno ha una lunga storia e venne in gran parte realizzato avanti la prima guerra mondiale per poi esser ripreso e ultimato tra il 1924 e il 1930 all’interno delle opere di bonifica integrale promosse dal regime che, come dovrebbe esser a tutti noto, non riguardarono la sola bonifica delle cosiddette paludi pontine. Gli è però che il canale Zaniolo in destra del Reno per un lungo tratto ha un alveo pensile cioè più alto rispetto al territorio circostante e dunque non riesce a raccogliere le acque basse. Infatti ancor oggi ristagnano dopo l’alluvione o sono asportate da potenti idrovore che consumano 1000 euro l’ora di carburante (non credo bio, ma fossile). Il business non tien conto che la graziosa cittadina di Conselice ha un’altezza di 6 metri sul mare. Dunque sì: i cambiamenti climatici ci sono (ci sono sempre stati: abbiamo tutti studiato la cosiddetta “piccola era glaciale” se non alle elementari alle scuole medie) e l’effetto serra c’è: dobbiamo intervenire. Siamo già in ritardo non tanto noi in Italia ma altrove: quanto carburante fossile è stato utilizzato per guerre e ora per la guerra in Ucraina? Quanto carburante fossile è utilizzato per produrre e tenere in buona forma gli armamenti? Per ridurre l’inquinamento atmosferico ed adottare stili di vita e politiche volte al rispetto, alla tutela e alla valorizzazione della Terra che è un dono Sacro (noi siamo secolarizzati, ma per altre civiltà la Terra è Sacra) dobbiamo anche meditare, ragionare su quelle forme possibili atte a salvaguardare la Terra come bene Sacro in quanto vien prima del business. Si pensa ora alla “ricostruzione” (con relativo Commissario da prescegliere): ma non sarebbe meglio meditare su come e cosa ricostruire? Su come e cosa coltivare se, a quanto dicono, il danno provocato ai terreni alluvionati impedirà di impiantare nuove coltivazioni per almeno 5 anni?

Foto di Fruchthandel_Magazin da Pixabay

Non si potrebbe pensare a un progetto mirato, rivolto a salvaguardare e valorizzare la biodiversità ovvero a impiantare coltivazioni non intensive o superintensive ad esempio di kiwi tutti uguali che per altro ha gravi problemi di batteriosi tanto che si assiste un po’ ovunque in Italia alla moria di kiwi? È proprio indispensabile il kiwi? O siamo stati convinti, dai rubricaristi- salutisti on line, che esso lo sia nella nostra alimentazione quotidiana? La biodiversità agricola quanto quella agro-zootecnica sono un patrimonio da salvare perché sono il segno di una perdita ancor più grave che è la perdita della diversità identitaria umana sottoposta al processo di omologazione che costringe a vedere l’altro, il diverso come un nemico in nome dell’uniformità. E non inseguiamo il ritorno a un sistema produttivo e dunque alimentare variegato opponendo alle immense monocolture diffuse nel pianeta (che pur garantiscono un iperproduzione redditizia a scapito dell’ambiente) facendo ricorso agli organismi transgenici o all’editing genomico. Alla mela Arctic brevettata e OGM affinché tagliata a fettine, posta in scatolette per spuntini veloci non annerisca, preferiamo una mela realmente locale e naturale anche se un poco ammaccata: sulle fettine ci spargeremo gocce di succo di limone non trattato e ce ne faremo una ragione.

Foto di apertura: Il Ponte della Motta (attraversante l’Idice), presso Molinella (BO), completamente distrutto- – Foto da wikipedia.org – CC BY-SA 4.0