Se per quasi quarant’anni ho lavorato nella cooperazione allo sviluppo certamente lo devo a Claudio Leone, il fondatore di TUTTI, e a Piero Bassetti. 

Negli anni 1980 l’IPALMO era un istituto di studi che svolgeva un ruolo chiave nei rapporti con quello che si chiamava allora il Terzo mondo. A quel tempo ero un giovane assistente di diritto internazionale, e fui subito affascinato dalla realtà dei paesi in via di sviluppo, molti dei quali allora non avevano ancora conquistato l’indipendenza. 

I terzomondisti degli anni 1970 si battevano per la liberazione dei paesi più poveri, obbligati a scegliere a quale squadra appartenere, a quella dei paesi capitalisti, oppure socialisti. Le ideologie di quell’epoca, che oggi sembrano così lontane, partivano dal presupposto che certi paesi erano poveri soltanto perché quelli ricchi li avevano sfruttati per secoli, e continuavano a sfruttarli. Promuovere lo sviluppo era quindi un dovere, quasi un risarcimento per i danni che avevano subito. L’Italia rispose allora con la legge 49/87, e con un impegno finanziario che non aveva precedenti. Non solo le istituzioni internazionali e le ONG vissero allora un grande momento di gloria, ma anche il mondo delle imprese trovò grandi opportunità, realizzando dighe, porti, aeroporti e strade.

 Molte critiche furono sollevate ieri – e vengono riprese oggi – sulle filosofie, sui metodi e sulle realizzazioni. Però, certamente molte cose furono fatte, e grandi risorse economiche vennero rese disponibili. Ma, come per ogni altra attività umana, anche la cooperazione allo sviluppo soffrì di inefficienze e corruzione. Così, con “Mani pulite”, si decise di buttare il bambino con l’acqua sporca. 

Non pensate però che, dopo quarant’anni di lavoro nei paesi più difficili del mondo, io voglia intrattenervi sui difetti, sugli errori delle tante attività di cooperazione allo sviluppo delle quali sono stato testimone, anche se è vero, che il male interessa molto più del bene. Che io sia considerato vecchio oppure no, a settant’anni si dovrebbe almeno avere il vantaggio di guardare le cose con quel recul che, asciugando gli impulsi e la rabbia, ci permette una visione più serena del mondo, l’unica che può servire ai giovani per camminare nel futuro.

In realtà sono anche stanco di teorie, strategie, geopolitica e grandi sistemi. Le cose più importanti che ho imparato non le ho lette sui libri ma le ho tratte dagli incontri e dalle storie di persone semplici, di persone comuni, quegli invisibili, tutte quelle comunità umane che vorremmo affiancare nei percorsi di sviluppo economico e sociale. Ho fatto centinaia di lezioni all’università, mi piacerebbe sapere se alcune di queste piccole storie che vi racconto spiegano qualcosa anche a voi.

Ci avviciniamo a passi lenti verso un piccolo laboratorio per la tessitura di tappeti, vicino alla città di Médénine, all’inizio del grande deserto tunisino. Sappiamo già quello che ci troveremo davanti: una decina di donne, coperte dalla testa ai piedi, che muovono le loro dita su antichi telai con una impressionante rapidità. Quando il dolore al collo e alle spalle si fa insopportabile, una di loro si alza e massaggia le compagne.

Ci apre la porta il proprietario – naturalmente l’unico uomo in quell’universo femminile – e ci vanta le sue tessitrici che usano lane e colori naturali e lavorano con una tecnica antichissima, tramandata dalle nonne e dalle madri. 

Siamo venuti per vedere se fosse possibile realizzare tappeti con disegni più appetibili per i consumatori europei. Prodotti artigianali ed ‘ecologici’, ma alla moda, per i nostri salotti e le stanze dei nostri bambini. Il difficile non è trovare i disegni, ma cambiare tradizioni ancestrali, spiegare una bellezza che non è quella che hanno visto da quando sono nate.

Piero, il nostro capo progetto, chiede di parlare con loro. Il padrone si rivolge alla più esperta: «Malika, questo signore vorrebbe parlarti». Lei abbassa le mani dal telaio e ci guarda: è abituata ad ubbidire. Piero apre il suo Mac e lo poggia su una seggiola davanti a lei. Sullo schermo appaiono fotografie di stanze di appartamenti eleganti, con vari tappeti sul pavimento. Poi appaiono anche le fotografie dei tappeti che si vendono in Europa. Malika non nasconde la sua sorpresa, ma si concentra sulle fotografie che le sfilano davanti. 

«Che ne pensi?». Piero era distratto, e le ha parlato in italiano, ma lei ha capito benissimo. Il suo viso è quello di una donna fatta, ma la sua voce è quella di una ragazzina: «Quanto è grande questo tappeto? E quest’altro? È una camera da letto matrimoniale? Ci deve giocare sopra un bambino?». Il proprietario traduce, un po’ meravigliato delle domande di lei. Piero le sorride e risponde con pazienza, ma adesso anche lei gli sorride. È la prima volta che qualcuno le chiede cosa pensa, invece che da quanti anni fa quel lavoro e quanto ci mette a finire un tappeto.

Stiamo per uscire quando Malika si alza e ci dice forte «grazie», ma è il suo sorriso a dirci per cosa ci ringrazia. Conservo gelosamente la fotografia di una ragazza china su un telaio, con un piccolo Mac davanti a lei.

Una stilista milanese è venuta per capire se le donne di Douz (un’altra piccola città del deserto tunisino) saranno capaci di realizzare tessuti ricamati per l’alta moda italiana. Ha fornito lei i tessuti e i fili per il ricamo e, da brava manager, ha concordato il prezzo del lavoro. Poi è uscita ad aspettare l’automobile che l’avrebbe ricondotta a Tunisi.

Monica invece, la sua assistente italiana, di non più di vent’anni, è rimasta nel piccolo laboratorio. Ha messo su un tavolino un pacco di riviste di moda e ha cominciato a sfogliarle, indicando alcuni vestiti ricamati, indossati da bellissime modelle. Solo allora tutte quelle donne si sono alzate per mettersi intorno a lei: «Questa modella si chiama Miriam, ed è la più bella di tutte: guardate il suo vestito ricamato, non è stupenda? Vi farò vedere Miriam con indosso il vestito che avrete ricamato voi. Sarete insieme con lei quando camminerà sulla passerella.»…«Siamo molto più basse di lei, e abbiamo le gambe più grosse. Però Olfa, che oggi non c’è, è magra e molto alta, ha i capelli lunghi e non se li copre.»

Monica non sa più come fermarle. Le chiedono quali sono i colori che le piacciono, i profumi, le scarpe, e non potrà uscire se non avrà mostrato la foto del suo ragazzo italiano. La stilista italiana la chiama: l’automobile è arrivata. «Non ti preoccupare, il vestito di Miriam che faremo noi sarà più bello di quello della rivista». Monica sale in macchina di malavoglia: le sarebbe piaciuto restare con loro.

Mariem ha sposato un italiano dell’Emilia-Romagna, sono andati ad abitare sull’isola di Djerba e hanno due bambini. Ricordando la sua tradizione familiare, a lui è venuto in

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 mente di cominciare la produzione di paste ripiene, e cioè tortellini e agnolotti, da vendere agli alberghi e ai molti ristoranti frequentati dai turisti. L’idea è certamente sua, ma riconosce che il motore della piccolissima impresa è Mariem, che ci si è buttata a testa bassa, lavorando dall’alba all’ora di cena. 

Mariem aveva assunto alcune ragazze di Djerba, che però sparivano, quando le famiglie avevano bisogno di loro per organizzare feste, matrimoni, oppure occuparsi dei bambini. Mariem è tunisina e conosce bene le donne e le famiglie del suo paese. Così si è inventata una campagna di promozione e testing del prodotto: ha regalato qualche confezione di tortellini alle sue ragazze perché li preparassero per i loro mariti, le loro famiglie e i bambini. Dopo il weekend sono ritornate da lei entusiaste ed eccitate: chi suggeriva di metterci un po’ più di formaggio, chi un pizzico di una spezia locale alla quale i consumatori erano più abituati. Da quel momento non sono più sparite e molti banchetti di nozze hanno iniziato con un piatto di tortellini.

Per non parlare delle idee, che meriterebbero di essere realizzate, come aiutare la giovane Abir a produrre formaggi caprini biologici: gli esperti della cooperazione tedesca le hanno insegnato a pianificare la creazione di una piccola impresa, ma poi hanno frustrato il suo entusiasmo, lasciandola con qualche foglio di carta in mano. Non sarebbe stato difficile fornirle un piccolo finanziamento, per poter comprare le modeste attrezzature di cui avrebbe avuto bisogno.

Nel sud dell’Iraq, Ahmed cura con grande passione i suoi alveari e sua moglie Salima confeziona con passione piccoli barattoli di miele. C’è da chiedersi come fanno le api irachene a produrre un miele con un gusto così speciale da un deserto così arido ed avaro. Si potrebbe certamente fare qualcosa per aiutare quell’adorabile famiglia a mettere il suo miele sulle nostre tavole.

Con l’arrivo della bella stagione un centinaio di donne e ragazze vanno la mattina presto sulla spiaggia di Gabès, sempre nella mia amata Tunisia.

Perforano la sabbia con un bastoncino, e quando sentono la conchiglia di una vongola la tirano fuori con le mani e la mettono in un piccolo secchiello azzurro. Pagano gli organizzatori di questa strana pesca, non solo il trasporto su quella spiaggia, ma persino la bilancia che serve a pesare le vongole. Due o tre euro al giorno, che per noi non sarebbero nulla, per loro significano un quaderno per i bambini, una fetta di carne sulla tavola. Uno sfruttamento del lavoro, come ce ne sono tanti nel mondo. Però l’attività che fanno potrebbe essere valorizzata.  Si potrebbe dare un senso al lavoro delle donne. 

Il nostro esperto di pesca ha spiegato pazientemente cosa si sarebbe potuto fare. Immaginiamo di coinvolgere i coltivatori di vongole italiani. Chiediamo loro se avessero voglia di aiutare le cento donne della spiaggia di Gabès. Molti di quelli della regione Veneto sono gente fantastica, sono sicuro che sarebbero felici di aiutarle, senza chiacchiere, con la loro ruvida bontà. Vediamo se le autorità competenti volessero assicurare a una cooperativa femminile la concessione di qualche chilometro di quella spiaggia. La dividiamo in grandi riquadri, e ciascuno sarà affidato a dieci donne, con picchetti e bandierine. I nostri amici italiani doneranno alla cooperativa il primo quantitativo di piccole vongole da seminare. Altri donatori italiani forniranno i piccoli trattori necessari alla raccolta e insegneranno alle donne a guidarli, a turno, naturalmente, per non far torto a nessuna. Un pezzo della spiaggia sarà riservato ai loro mariti e ai loro bambini e ci sarà anche un ristorante italiano che si chiamerà ‘spaghetti alle vongole’, e brave cuoche italiane insegneranno come preparare fantastici spaghetti alle vongole. E sappiamo tutti che la cucina produce un grande indotto economico: ma i progetti più semplici sono spesso quelli meno considerati.

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Infine non voglio dimenticare che le donne della cooperativa saranno a turno responsabili della pulizia della spiaggia, dove non si troverà più un solo pezzetto di plastica. Sembra così facile. E allora perché nessuno l’ha ancora fatto? Cosa c’è di difficile nel favorire i percorsi di sviluppo? Il difficile è sempre e soltanto la diversità.

Quante donne accetteranno di far parte della cooperativa, e quanti mariti le lasceranno fare, partecipare alle riunioni, assumere incarichi? Sarà facile per loro scegliere una presidentessa, una direttrice, una responsabile delle vendite? Le autorità pubbliche accetteranno di affidare l’uso di un pezzo di spiaggia ad una cooperativa di donne? Quanto tempo ci vorrà per ottenere tutti i permessi necessari? E quante donne avranno l’autorizzazione dei mariti a guidare i trattori? Come e quando si ripartiranno gli utili? Chi gestirà il ristorante e chi sarà responsabile della pulizia della spiaggia?

Un pomposo studio della Banca Mondiale analizzò le ragioni degli insuccessi delle joint-ventures fra grandi imprese multinazionali. Perché molti matrimoni fra grandi gruppi industriali non avevano funzionato? Com’era possibile, dopo le dettagliate analisi commissionate a strapagate società di consulenza?

La risposta fu interessante, anche se meno scientifica di quanto ci si sarebbe aspettato. I fallimenti dipendevano quasi sempre dal fattore umano, cioè, per dirla in parole povere, i manager e i dirigenti delle due società non andavano d’accordo, e molto spesso avevano finito col litigare.

Queste sono le sfide, non procurarsi le vongole da seminare o i piccoli trattori. Sono queste le sfide della diversità, che richiedono il tempo e la pazienza di incassare molti insuccessi. Quello che funziona così bene in Italia, in Europa o in America, non è detto che sia la formula vincente sulla spiaggia di Gabès o in un paesino africano. Aiutiamoli a casa loro, continuano a ripetere tanti politici venditori di parole: ma come? Loro non offrono mai idee o soluzioni, ed infatti in molti paesi, in Europa ed in America, non siamo stati neppure in grado di aiutare piccolissime comunità, le minoranze che vivono da centinaia di anni insieme a noi!

La tentazione di trapiantare soluzioni e modelli è forte. Trovare quelli efficaci e condivisi in comunità diverse dalla nostra è un altro paio di maniche. E poi, siamo sicuri che le nostre ricette siano sempre le migliori? Non c’è un solo modo: per migliorare tradizioni e culture e permettere ai diversi di capire le nostre, ci vuole tempo, perché prima bisogna incontrarsi. Gli esseri umani sono strani: non basta buttare soldi, tessuto e fili da ricamo sul loro tavolino. Le mani non si muoveranno se prima non lo faranno le menti e i cuori.

Se non si comincia però non si farà mai niente di utile e duraturo.

Foto nel testo  di Alessandro Costa