Quando si parla di disabili ci si riferisce ad un insieme molto vasto e differenziato. Questa imprecisione terminologica quasi sempre rende confusi gli interventi che si fanno sul tema della disabilità (disabile, handicappato, invalido, inabile…e poi ci sono gli anziani con problemi).

Nelle riflessioni che seguono l’insieme di riferimento è quello dei disabili mentali. Per parlarne in modo appropriato è indispensabile avere una lunga esperienza di vita in comune con uno di loro, e aver passato le vicissitudini quasi sempre inaspettate che chi è della partita ben conosce e non ama parlarne: incidenti gravi e gravissimi, morti evitate per un soffio, notti senza dormire…

Una dolorosa decisione, sempre più urgente con il passare degli anni, attende i familiari che assistono il disabile mentale (spesso chi assiste è una sola persona, quasi sempre una figura femminile).

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Il dilemma è il seguente: fare in modo che il disabile rimanga nella sua casa con la famiglia di origine o cercare di inserirlo in una casa famiglia? Non pensarci e rinviare aiuta, ma non risolve.

La prima scelta protegge in teoria il legame affettivo e preserva dal senso di colpa per l’abbandono ma la convivenza è ogni giorno più difficile, la noia del disabile crescente e paralizzante, l’assistenza domiciliare che si riesce ad avere con personale delle strutture sociali, cooperative o badanti non è garantita nel lungo periodo e soprattutto inadatta a gestire i momenti più critici che a volte necessitano di personale specializzato. Questa scelta peraltro ha un costo economico più sopportabile, ovviamente sempre nel quadro dell’impoverimento strutturale delle famiglie che assistono disabili.

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La decisione di inserire un figlio in una “struttura residenziale” (che brutto termine usa la legge dopo tanta retorica sull’inclusione), genera un dolore serio, sopportabile certo, ma che continua ad affiorare nei momenti di debolezza e non ti lascia più. Un dolore vero, diciamo così. Inoltre dà al disabile il riconoscimento di una vita personale, anche se protetta, simile a quella di ogni altro figlio. Le altre separazioni sono in fondo arrabbiature.

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Di tutto questo il disabile che ne pensa? Non lo sapremo mai con certezza. La persona disabile non sa difendersi e vive immersa nei suoi cicli emotivi, ma anche con un po’ di fortuna, tenderà ad adattarsi alla nuova vita specialmente se gli operatori ai vari livelli sono competenti e motivati ed i compagni di vita sono simpatici o almeno sopportabili.

Questa soluzione costa una grande quantità di denaro allo Stato e al privato, perché richiede oltre ad immobili adeguati tanto lavoro umano qualificato di giorno e di notte, e il lavoro costa. La struttura residenziale se ben organizzata e gestita sui due piani fondamentali, quello assistenziale e quello amministrativo, ha una vita teoricamente illimitata e una capacità di superare le fasi di difficoltà che le famiglie di oggi, sempre di più mononucleari e invecchiate, non hanno. Questa è sicuramente la motivazione più rassicurante per chi fa una scelta simile.

Quindi chi scrive vota a favore della seconda soluzione, ma in materia quale è la situazione istituzionale oggi in Italia? Leggi bellissime, costose e difficili da attuare. E poi in materia ci sono 19 regioni, due province autonome e 7.904 comuni. Il progresso è molto lento. In Cina da zero interventi e situazioni da lager hanno cambiato rotta e in pochi anni sono passati a rendere accessibile la muraglia alle carrozzelle.

Chiunque affronta una scelta simile deve cercare di farlo al più presto dopo la maggiore età del figlio, per poter rimediare ad eventuali insufficienze o errori.

Comunque alla domanda: dove dormono i disabili italiani? La risposta sembra essere la seguente: nella stragrande maggioranza a casa nel loro letto, finchè dura.

Testimonianza della madre di Marta

Sono la madre di una giovane disabile mentale. Abbiamo scelto per mia figlia un percorso di vita autonomo dalla famiglia. Questa scelta è maturata nel tempo (con l’aiuto di uno psicologo e partecipando a una terapia di gruppo) e si è basata soprattutto sulla convinzione che un figlio, raggiunta la maggiore età, abbia bisogno e diritto di uscire dalla condizione di sudditanza verso i genitori e di affrontare la vita con i propri mezzi qualunque essi siano.

Per ogni persona sono importanti gli affetti familiari ma sono altrettanto importanti i rapporti di amicizia con altri che condividono il tuo percorso di vita, che ti sono vicini senza chiederti di essere diverso da quello che sei, con i quali puoi stabilire un rapporto alla pari. Il compito dei genitori sarà quindi quello di cercare la migliore soluzione possibile avendo comunque presente che, come succede a chiunque nella propria vita, ci saranno anche momenti difficili da superare, ci saranno aggiustamenti da fare, momenti di crescita, momenti di regressione. È importante però mantenere sempre “la barra dritta”, infondere fiducia e far sentire al proprio figlio che il genitore lo affianca e lo sostiene, tuttavia senza cedimenti.

È necessario avviare al più presto la ricerca di una soluzione quando si hanno ancora a disposizione energie fisiche e mentali e si ha il tempo di valutare se la soluzione trovata è idonea e risponde ai bisogni del giovane e anche di seguirne l’evoluzione. Nel nostro caso abbiamo scartato la prima idea di organizzare insieme ad altre famiglie una “Casa famiglia” gestita privatamente e abbiamo indirizzato la ricerca verso una casa famiglia accreditata. Questa soluzione ci offre più garanzie di continuità e di controllo.

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