Sulla Repubblica del 29 settembre è apparso un articolo che parlava di una madre che da 27 anni assiste il figlio disabile in tutte le sue funzioni e che non ce la fa più anche perché da troppo tempo la notte non può dormire. L’articolo sollecitava adeguato sostegno per i caregiver evidenziando i flop delle norme via via emanate.

Nei giorni scorsi televisione e giornali hanno narrato delle paralimpiadi di Tokyo dove i nostri atleti disabili hanno vinto 69 medaglie in 11 discipline.

A questo punto la domanda è: la parola disabile a quale insieme di persone si riferisce?

Foto di proprietà dell’Associazione Loic Francis-Lee

Una breve ricerca sull’argomento rivela la grande confusione/complessità che contiene questa parola, unitamente anche alla scarsa concretezza di molti di quelli che a vario titolo propongono interventi in materia.

Della parola “disabile” se n’è occupato qualche anno fa il grande linguista Tullio de Mauro, e concludeva che la parola disabile non ha un significato preciso, non l’abbiamo ancora trovato, ma, diceva, attenti che vengono prima le cose delle parole e cioè contano gli interventi a sostegno di queste persone più che il bla bla bla. Opinione ancora condivisibile viene da pensare mentre si sfogliano gli innumerevoli documenti internazionali e nazionali che propongono auspicabili interventi.

Per chi come noi si occupa sul campo dei problemi dei disabili mentali e delle loro quotidiane necessità è importante stabilire di quali disabilità si stia parlando.

Se capiamo bene, semplificando, la narrazione segue una progressione logica: si parte dalla parola menomazione – la perdita/mancanza di una qualche essenziale funzione fisica o psichica in una persona – che provoca una disabilità. E fin qui nulla accade, il problema nasce quando questa persona interagisce con l’ambiente rivelando in questa fase di avere un handicap.

Che significa handicap? in inglese mani nel cappello, un gioco d’azzardo del seicento nel quale vinceva chi estraeva la moneta più alta fra quelle versate nel cappello, il termine è stato poi usato nelle corse di cavalli nelle quali il cavallo più veloce partiva più lontano dal traguardo o più appesantito, per lasciare agli altri le stesse probabilità di vittoria.

E quindi handicap significa svantaggio, ma sembra riferirsi a chi comunque riesce a correre. Quindi un miope con gli occhiali può guidare, un sordo con il linguaggio dei gesti può capire cosa stiamo dicendo, un cieco al buio vede come noi (forse meglio), e così via.

Nella grande discussione astraendo dalla distinzione naturalistica tra normodotati e disabili questi ultimi non sarebbero persone prive di una qualche importante funzione umana, per essere viceversa persone “normali” a contatto con un ambiente socioeconomico che li svantaggia, poiché è stato costruito senza pensare alla loro condizione.

Di questi tempi prevale dunque la tesi che si tratti di persone come tutte le altre anche se diversamente abili e che il problema si possa risolvere cambiando l’ambiente con il mantra “abbattere le barriere”, “perseguire l’inclusione” (United Nations Disability Inclusion Strategy). Un altro anglicismo, la parola italiana “integrazione”, dal latino completare/migliorare, sarebbe più appropriata.

Foto di proprietà dell’Associazione Loic Francis-Lee

A questo punto che dire? Se fossimo nati tutti in paradiso non vi sarebbero problemi per nessuno, ma siamo nati nel mondo e il mondo è quello che è, un purgatorio, spesso l’inferno restando nella metafora. Per i disabili ancora di più.

Chi ha a che fare con i disabili psichici gravi, quelli a cui si riferiva l’articolo che abbiamo citato all’inizio, sa che queste persone sono a rischio di vita in ogni momento se non sono adeguatamente assistite e che per farle vivere in un modo minimamente accettabile devono essere seguite nel continuo da un numero adeguato di persone specializzate e non dalle famiglie, generalmente madri e sorelle, che possono resistere per un tempo limitato. Il burn-out esiste anche per loro, anche se non hanno un contratto di lavoro.

È necessario secondo noi creare delle strutture residenziali dove i disabili gravi possano vivere in una piccola comunità guidata da personale specializzato e stabile nel tempo. Se queste case fossero ubicate in luoghi naturali e non al terzo piano di un grattacielo di periferia sarebbe meglio, perché l’ordine, la tranquillità, la ripetizione degli eventi quotidiani aiutano i disabili mentali a stare sereni. I cambiamenti li scompensano.

Ma quanto costa allo Stato realizzare un numero adeguato di case-famiglia? Qualche miliardo di euro. Per fare un conto preciso ci vorrebbero dati statistici accurati sulle varie forme di disabilità senza mischiare gli anziani con persone che hanno deficit mentali. È stata recentemente preannunciata la costruzione statistica del “Registro delle disabilità”, una base conoscitiva indispensabile per interventi pubblici articolati, equi e sostenibili. Certo un gran lavoro per raccattare dati sparsi ovunque, intanto il tempo passa e i caregivers invecchiano.

Quanto abbiamo destinato ai caregivers? 20 milioni nel 2017, il decreto si è poi arenato, ma è rinato nel gennaio di quest’anno nel “Fondo per il sostegno del ruolo e cura assistenza caregiver familiare 2018-2019-2020”. La palla è passata alle Regioni e da queste ai Comuni e i bravi funzionari periferici staranno facendo le consuete acrobazie burocratiche pur di tirare qualche palla in rete dopo tanti passaggi.

E come siamo messi con la spesa sanitaria? Qui un’altra doccia fredda: il rapporto fra la spesa sanitaria e il prodotto nazionale lordo ci vede collocati nelle parte bassa della graduatoria europea in mezzo ai paesi dell’Europa dell’Est, ma noi non abbiamo avuto i 50 anni di regime del blocco sovietico.

Che fare? Forse è indispensabile anche in questo campo diffondere con ogni mezzo una “cultura del risultato”, mettendo in chiaro obiettivi finali e tempi, raccordati alle risorse necessarie: moneta, capitale fisico, capitale umano.