Riaprono i cinema, prudentemente, un po’ alla volta. Come i gatti quando passata è la tempesta (e gli augelli fan festa). Oscar e i suoi fratelli chiudono un anno e ne aprono un altro.

Polemichette. Una polemica di quelle frequenti sui siti web che raccolgono gli appassionati di cinema, ha animato per qualche giorno la rubrica delle lettere al direttore di “Repubblica”, curata da Francesco Merlo. «Perché i critici cinematografici non scrivono mai la verità?», esordisce una lettrice che a più di uno è parsa un’alter ego del curatore. Si riferisce a “Nomadland”, ultimo Leone d’oro a Venezia e recente Oscar per film, regia (la cino-americana Chloé Zhao) e protagonista (Frances McDormand). Annoiata e supponente, parla come la proverbiale casalinga di Voghera di Alberto Arbasino (e Nanni Moretti), ma ci tiene a far capire che è molto di più. Cita il giudizio di suo suocero su Antonioni (non gli piaceva), sciorina un po’ di banalità da “Dizionario dei luoghi comuni”, aggiunge di essere uscita dal cinema «peggiore di com’era entrata» (addirittura!). Lei e tutta la famiglia, suocero compreso. Non poteva mancare Fantozzi con “La corazzata Potemkin”; la linea “anti-elite” paga sempre.

Il curatore risponde: «Meglio non si poteva dire. La sua lettera è una lezione ai ‘critici’ (fra virgolette) che hanno ormai una soggezione imbarazzante nei confronti di Oscar, Nastri, Leoni e Papere d’argento. Brava e grazie». Peccato che le recensioni del film (tutte, positive e no) risalgano a prima del Leone d’oro. Figuriamoci degli Oscar. La disputa prosegue fra repliche, divagazioni e qualche villania. La signora assurge a protagonista. Passa del tutto in sottordine il fatto che il film sembri piacere più al pubblico (Fantozzi) che ai critici (l’esimio Guidobaldo Maria Riccardelli), in buona misura freddini. Strana “Corazzata Potemkin” (nella prospettiva fantozziana) quella che in due settimane di cautelosa riapertura ha già superato i 900.000 euro di incasso. Per dare un’idea, gli altri film usciti finora (fra i quali spicca l’ultimo Woody Allen), tutti insieme, superano di poco i 600.000.

Brava e grazie.

Parliamone. Detto questo, però, amici che vi siete entusiasmati al film di Chloé Zhao, parliamone. Come fanno, molti di voi, ad accogliere altrettanto calorosamente il “Sorry we missed you” di Ken Loach e “Nomadland”? Lo sguardo del regista inglese sul mondo dell’e-commerce e dei diritti negati e quello della simpatica cinese (stavo per scrivere “cinesina”: schiaffi sulle mani! Solo per averlo pensato) con le treccine che ad Amazon, al grafismo del suo sorriso e ai suoi magazzini ordinati e puliti, dedica lo spot pubblicitario più invadente, e oserei dire più vergognoso, mai riservato ad un’azienda nel cinema di fiction ?

Cioè, lasciando stare i punti interrogativi, il film (SWMY) che per primo ha mostrato gli addetti alle consegne pisciare nelle bottiglie per non sforare i tempi di recapito fissati dall’algoritmo, e quello (NL) che a un popolo di lavoratori stagionali Amazon – vecchi senza famiglia, a volte respinti dalla loro, altre autoisolatisi per il carico dei drammi personali – che non potendo permettersi una casa vive e si sposta in camper attraverso gli Stati Uniti in cerca di lavori stagionali e provvisori, mal pagati e senza sicurezza sociale, dedica un ambiguo poema di solidarietà libertaria.

Ossia, da una parte, la denuncia – persino narrativamente eccessiva, da libro di Giobbe – capace di costringere un’azienda, che continuava adichiarare di non saperne nulla, ad ammettere quanto già di pubblico dominio da anni, mentre questo tema assurgeva a motore del primo sciopero internazionale di quei lavoratori; dall’altra l’operina crepuscolare (NL) che spaccia un popolo di umiliati e offesi, con una vita andata a puttane dietro le spalle e nulla davanti, per eredi dei pionieri che fondarono l’America (quelli che niente avevano dietro e tutto davanti); che scambia il tramonto di un popolo per la sua alba, la sua infelicità senza desideri come virtuosa resilienza alla “dittatura del dollaro” (spostando avanti qualunque limite riconosciuto, in democrazia, alla mistificazione).

Davvero possiamo noi europei non più giovanissimi, con le nostre pensioni e professioni e Welfare State, al termine di un anno in cui – e non è ancora finita, tutt’altro – un continente ha affrontato la sua crisi più grave nel nome dei propri anziani e anzianissimi, accettare senza un fremito di ribellione, la “poesia” country del “That’s America” davanti a queste vite di vecchi che una giovane cinese – e incomprensibilmente, per me, una grande attrice e produttrice liberal – circonfonde di confuciana rassegnazione; vecchi che da bravi non vogliono certo “pesare sulla società”; che non si chiedono cosa possa fare per loro l’America, ma cosa possono fare loro per l’America (risposta: togliersi dai piedi) e lo fanno; in marcia ogni due o tre mesi (il paese è grande), attraverso highlands, badlands, lowlands, fucklands, dovunque ci siano barbabietole da raccogliere, cessi da pulire, camping da sorvegliare; per ritornare, quando è tempo, nella grande, provvida azienda, nei suoi magazzini ordinati, a chiudere per qualche mese e qualche dollaro (comunque più della pensione, dopo anni di quel lavoro la cui perdita è spesso all’origine di tanto peregrinare) i pacchi di Amazon Prime (bene in vista, mi raccomando, il nastro adesivo; si chiama “product placement” e porta una  barca di soldi al film e al padrone, visto che mettendo insieme i frammenti di “Nomadland” in cui lo celebriamo vien fuori un cortometraggio)?

Come si fa ad accettare che la marcia di questi sereni diseredati over-sixty (anche seventy) sui loro camper, amorosamente arredati delle povere suppellettili di una vita (ci sono davvero, sono il popolo del film che in parte interpreta sé stesso e sono, ovviamente, persone meravigliose) ci venga proposta come la grande lezione di poesia e di libertà di chi è riuscito davvero a sottrarsi alla “dittatura del dollaro”, vivendo “nelle terre selvagge, nelle rocce, negli alberi, nelle stelle, in un uragano” (Zhao) la ricerca “della propria indipendenza”? Svegliandosi col sole (quando c’è il sole) e andando a letto con la luna (o con la neve), sperimentando nuove solidarietà umane, salutando chi muore con un arrivederci intorno al fuoco e il “See down the road” della canzone, simili più ad anziani pellirosse che a pionieri. Estranei alla vita del grande paese, che li ha espulsi e li ignora; sotto il cielo del sorriso stilizzato della grande azienda, che li guarda dall’alto e da lontano e li accoglie come quello di un dio benevolo. Per qualche mese l’anno, chiaro, che non si facciano strane idee.

Oltre lo scaltro apparato visivo – sovente di ieratica lentezza – in cui domina il volto di Frances McDormand, vedova e disoccupata dai tempi della “crisi dei subprime”, in marcia sul suo “a-VAN-guardia” lungo quella vita nomade, ma non randagia, per lei divenuta irrinunciabile anche di fronte all’offerta di ospitalità della sorella e di un amico; al di là dei paesaggi degli Stati attraversati nell’annuale

anabasi, dalle coste della California alle montagne del Nevada, oltre i valori dell’interpretazione della straordinaria moglie di Joel Coen e della verità antropologica dei volti; al di là di tutto questo è la passività di uno sguardo banalmente sentimentale a fare di “Nomadland”, realizzato nel pieno della presidenza Trump e uscito al culmine della pandemia, un film falso, lo specchio triste di un’America irredimibilmente reazionaria e trumpista, che si affida alla commozione, come nella canzone di Dalla, per mettere d’accordo tutti, “i belli con i brutti”. Con il danno che sappiamo per i brutti, che si vedono consegnare il “pezzo di specchio”, opaco, di un’America in cui potersi guardare.

 

Il processo dei Chicago 7

In fretta. Dal film che ha vinto più Oscar, a quello che non ne ha vinto nessuno. Ma era il più bello.

Nato quasi vent’anni fa, per impulso di Steven Spielberg e Aaron Sorkin (che lo ha poi diretto), progetto abbandonato e ripreso infinite volte per ogni tipo di difficoltà e resistenze (essenzialmente politiche come ovvio), “Il processo dei Chicago 7” è probabilmente uno degli ultimi figli di madre vedova (anzi morta) di quel cinema che fu il migliore cinema politico del mondo e di cui rimangono due anziani ma ancora splendidamente attivi patriarchi: Robert Redford e Clint Eastwood, la faccia liberal e quella conservatrice della stessa grande luna.

Si racconta del processo ai sette attivisti, scelti con un criterio non molto dissimile da quello delle decimazioni in guerra – fortunatamente non con lo stesso esito – fra le migliaia di partecipanti alle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam avvenute durante la Convention Democratica del ’68, che due mesi dopo l’assassinio del principale candidato (Robert Kennedy) portò alla scelta del vice presidente di Johnson, lo sbiadito Hubert Humphrey; mandandolo al massacro contro Nixon, senza grandi rimpianti fra gli elettori democratici. Una brutta pagina, quella del processo, raccontata magnificamente. Almeno Baron Cohen lo avrebbe meritato per acclamazione l’Oscar, ma non lo ha avuto neanche lui. In una tornata di Oscar dedicati (bene o male) alla terza età questo era quello che ricordava un’America giovane, che però forse interessa solo noi baby boomers, senza nipoti o quasi (proprio demograficamente, intendo). Giustamente, è stato trascurato. Salvo ripensamenti, non uscirà in sala. Guardatelo su Netflix e piangete. Il conflitto che vede opposti il personaggio di Sasha Baron Cohen (Abbie Hoffman) e il protagonista Eddie Redmayne (Tom Hayden, nella realtà destinato a una brillante carriera politica), è di quelli che parlano ancora. Litigherete anche adesso, nella parte dell’uno o dell’altro. (Fidatevi, è una gran bella camminata).

Molti sono convinti (a ragione) che quanto accadde a Chicago danneggiò il partito, alimentando le divisioni e agevolando l’elezione di Richard Nixon in novembre; e ritengono che, bocciando Humphrey, la nazione ripudiò non solo il radicalismo, ma anche il liberalismo. Ma dimenticano che la sinistra moderata, nel liquidare le posizioni dei progressisti e dei pacifisti per il loro estremismo, liquidò anche gli ideali di libertà e uguaglianza che, poco a poco, sono scomparsi del tutto dall’agenda politica dei democratici in tutto il mondo. (…) Pochi eventi come la Convention di Chicago, la madre di tutte le Convention democratiche, hanno avuto tanto peso nell’indirizzare il futuro politico del pianeta. Assieme alla delusione post-Sessantotto in Europa, quell’evento ha determinato, a lungo termine, un profondo distacco dalla politica da parte della parte più sensibile e consapevole dei baby boomers”. Da un articolo di Renzo Rosso (ingegnere idraulico – pensa te dove s’annida la storiografia dei sixties! – sul blog del “Fatto Quotidiano”.