Ruggiscono i conigli.

Il ruggito del coniglio”, originale declinazione dello storico modello Arbore-Boncompagni, è una gloriosa trasmissione che da quasi trent’anni allieta la prima mattina degli ascoltatori di Radio Due. Condotta da Marco Presta e Antonello Dose, interpella quotidianamente i suoi ascoltatori sui temi più vari. Giorni orsono, in occasione della giornata mondiale della radio, li ha invitati a dare personalmente in diretta l’annuncio che avrebbero voluto sentire quella mattina alzandosi. L’intento, come sempre umoristico, come tale è stato ovviamente accolto dagli intervenuti, primo dei quali a prendere la parola una signora che da Modena ha dato il suo annuncio. Più o meno: “Si inaugurano oggi in Italia le diecimila toilette pubbliche del piano nazionale che ha coinvolto i nostri maggiori architetti”. Inevitabile, per chi ha una certa età, avvertire una certa aria di “ritorno del rimosso”.

Da tempo, infatti, il tema di queste strutture di soccorso al pellegrino, fragrante come i piedi di un vecchio, aveva smesso di essere l’illacrimato ronzino di battaglia di malinconici elzeviristi finto-spiritosi, rievocanti sui giornali locali, in memorie da professor Aristogitone, quei fetentissimi locali detti vespasiani, in memoria dell’imperatore che sembra essere stato l’ultimo a portare a termine un adeguato piano Marshall della minzione pubblica. Un PNRR imperiale in cui la resilienza a cui si offriva comprensione e supporto era quella prostatica. Può stupire, quindi, ma è perfettamente ragionevole, che i due conduttori abbiano accolto l’annuncio della signora di Modena senza un briciolo di quell’ ironia che in altri contesti avrebbe prodotto (“sì, adesso, ci manca solo il cesso di Calatrava”). Può stupire, ma solo chi non abbia colto il riferimento, proveniente da quel gran pezzo dell’Emilia colta, ad un piccolo grande film che, contro ogni previsione, sta premiando come mai prima un settantottenne maestro tedesco, noto finora per titoli stupendi (non sempre) e ambiziosi (a volte fin troppo). “Perfect days”, il film con il quale Wim Wenders torna grande, dopo uno strano ventennio di modesti film di fiction e stupendi documentari, ha raggiunto in un mese gli ottocentomila spettatori e i cinque milioni al box office, cifre che da noi forse solo “Paris- Texas”, fra i suoi film precedenti, aveva raggiunto, muovendo da una Palma d’oro a Cannes. Va come un Frecciarossa, il piccolo film giapponese, è ancora in piena programmazione e alzi la mano chi, avendolo visto, si sarebbe mai immaginato una cosa del genere. Misteri di un tempo in cui il cinema d’autore si sta prendendo rivincite impensate dalla circolazione in sala. Abbandonato quel tanto di sussiego intellettuale che lo aveva accompagnato negli anni di collaborazione con l’amico scrittore Peter Handke (molto prima del Nobel), Wenders è oggi uno dei più temibili fra gli avversari di Matteo Garrone nella corsa all’Oscar.  Anche perché il più americano dei registi europei di Oscar non ne ha mai vinto uno: solo tre nomination per i documentari “Buena Vista Social Club”, “Pina” e “Il sale della terra”. E sono cose che contano, o potrebbero contare, nello spirito del risarcimento. Ma cosa c’entra tutto questo con la faccenda delle toilette?

                       

Il film.

Hirayama (l’attore è Kōji Yakusho, Palma per l’interpretazione a Cannes) è un sessantenne che per lavoro pulisce i bagni pubblici, a Tokio. Lo fa da anni (non sappiamo quanti e perché) con una cura e uno scrupolo esemplari, da “operatore sanitario” dei bagni pubblici. Se la cosa, in contesto giapponese e in ambito molto meno tecnologico, vi fa un po’ pensare alla storia dello zen e della manutenzione della motocicletta, sappiate che il raffronto non è poi così pittoresco o sbagliato (vedremo perché). Ma se vi fa ridere o vi muove a compassione, invece, siete davvero fuori strada. Hirayama non è povero. Pochi cenni durante il racconto dicono di una famiglia borghese alle spalle, di una vedovanza, di una sorella benestante (per matrimonio ma non solo), di un difficile rapporto col padre in fin di vita, di una cultura raffinata: letteraria (Faulkner, Highsmith) musicale (quella americana di un uomo della sua età: Lou Reed, Eric Burdon, Nina Simone, Patty Smith, ecc.). Abita una camera con bagno e poco più, in un edificio dall’aria fatiscente. Ma la sua vita è tutt’altro che miserabile. La stanza è arredata con gusto e pulitissima. Libri alle pareti, apparecchio musicale, piantine sul balcone, ottima cura della persona. Una grande vetrata sulla città, davanti alla quale ogni sera srotola il suo futon (l’alto materasso a terra dei giapponesi) e ogni mattina lo riarrotola, una lampada per leggere prima di dormire.

La sua vita fuori è perfettamente routinaria. Al mattino il distributore automatico sotto casa, per uno di quei caffè in lattina che a noi fanno senso solo a parlarne. Poi la macchina per andare al lavoro, su cui carica l’apposita attrezzatura (c’è anche una lente angolare, che ha incuriosito molti, per individuare gli eventuali residui proiettati dalla scarica dello sciacquone sul bordo interno della tazza) e che nel tempo di una canzone (la prima è “The House of the Rising Sun”) lo porta alla prima delle toilette affidate alla sua cura, nel quartiere Shibuya. L’incontro con i colleghi e le loro mattane, ragazzi che prendono il lavoro per quello che è, un lavoretto interlocutorio, e hanno ben altro per la testa. Il solito locale all’aperto per il pranzo, le laconiche amabili chiacchiere con il personale, la libreria dell’usato e la libraia, il negozio di dischi per le audiocassette (Hirayama ascolta solo quelle), la macchina fotografica tradizionale con cui fotografa prevalentemente paesaggi urbani e scorci di luce fra gli alberi, il laboratorio di sviluppo e stampa, le passeggiate lungo il fiume, i rari incontri occasionali.  Un evento rompe la quotidianità: la visita di una nipotina scappata di casa (figlia della sorella ricca) che si innamora della sua vita e di quelle cose buffe (audiocassette, fotocamera analogica, piantine) che “arredano” la vita dello zio. Quando la madre dopo qualche giorno torna a prenderla dirà, abbracciandolo, “voglio fare come te” (“non pensarlo nemmeno” è la replica: mica è scemo il nostro Hirayama). Correda la giornata, dopo il lavoro, il bagno in uno di quei fantastici bagni pubblici giapponesi che rendono patetica la memoria dei nostri “alberghi del passeggero” di una volta visti al cinema. E qui torniamo al sogno e all’annuncio, per nulla naif, della signora di Modena.

 

The Tokio Toilets”.

Figura 1     The Tokio Toilet – Nabeshima Shoto Park – A Walk in the Woods

Ci passiamo in media tre anni della nostra vita ma in Italia come altrove nessuno ne parla, se non con aria imbarazzata o infastidita. Va detto che i bagni italiani, almeno quelli pubblici, sono più una fonte di vergogna che di orgoglio nazionale. Sei italiani su dieci li trovano sporchi e la percentuale sale se chiediamo alle italiane. Perché le donne devono sedersi per la minzione e perché si lavano più sovente le mani, occupandoli tre minuti, contro i due degli uomini. Per le donne, i bagni pubblici sono principalmente un luogo d’ansia e di rabbia, in cui attendono sotto lo sguardo degli uomini e il peso di fisiologie e condotte differenti.” (Marzia Gandolfi (Perfect Days o della fenomenologia dei bagni pubblici )

Wim Wenders riceve una lettera dal Giappone. Lo invitano a girare una serie di cortometraggi, di 4-5 minuti ciascuno, dedicati ai bagni pubblici di Tokyo e agli architetti che li hanno progettati”. (Marco Belpoliti,Ombre e gabinetti, ). Wenders è un amante del Giappone; nel 1985 ha anche girato un documentario, “Tokio-Ga”, di omaggio a uno dei grandissimi di quel cinema: Yasujirō Ozu. Il progetto a cui la lettera fa riferimento si chiama “Tokio Toilet” e fa parte del piano pensato per le ultime Olimpiadi, rinviate di un anno e svoltesi con le limitazioni imposte dalla pandemia. Consiste in alcune decine di piccoli complessi architettonici realizzati da altrettanti prestigiosi studi professionali nei parchi della capitale. Con l’invito al maestro tedesco la capitale nipponica intende, a due anni di distanza, “mostrare al mondo un aspetto importante della cultura giapponese: l’accoglienza. In quel paese le toilette sono qualcosa di più di semplici servizi igienico-sanitari, come spiega lo stesso regista tedesco in un’intervista. In Giappone si presentano come ‘piccoli santuari di pace e dignità’ “ (Belpoliti). “Perfect days” rappresenta il rilancio di Wenders rispetto alla proposta: un film di fiction girato come un documentario. Così è Wenders al suo meglio. Così è il grande cinema.

Il giovane Wenders.

Il primo film di Wim Wenders (1970) è il saggio di diploma. Titolo: “Summer in the city”, mai uscito dal giro dei festival in quanto privo dei necessari diritti sulla colonna sonora: una quindicina di pezzi, da Elvis Presley ai Kinks (che avevano collaborato), da Bob Dylan ai Lovin’ Spoonful. Canzoni come quella del titolo o “Sunny afternoon” dei Kinks per un film girato a gennaio, in mezzo alla neve, fra Monaco e Berlino, con un freddo cane. L’estate in Germania è un’invocazione e un’attesa. Era il più acerbo (e noioso) degli esordi, quella storia di un carcerato (somigliante al giovane Bertolucci) che dopo la liberazione si accorge di essere nel mirino della sua ex banda. Cerca di nascondersi a Monaco presso un paio di amiche, poi fugge a Berlino da cui, rintracciato e senza il tempo di aspettare il visto per l’America, sceglie Amsterdam. Tutto il futuro regista, allo stato embrionale: la città e il viaggio; i lunghi camera-car (e treno, e aereo); i laconici incontri con le amiche a guardarsi in stanze spoglie (le stanze) o al bar in lunghe partite a majong; il biliardo con gli amici, i cinema che chiudono e spariscono (cinquant’anni fa!), le eredità dichiarate (il John Ford di “In nome di Dio”), le solidarietà amicali (il Godard di “Alphaville”, il Bogdanovich de “L’ultimo spettacolo”), gli amori letterari (Thomas Bernhard: “Kulturer”). Tutto l’armamentario teorico e le passioni di un ragazzo tedesco alla fine dei sessanta scaricato sul marciapiede davanti al cinema. Poi, tre anni dopo, “Alice nelle città”. Ed è capolavoro. Il brutto anatroccolo è diventato cigno.

Da “Alice a Hirayama.

Compie cinquant’anni “Alice nelle città” e Wenders festeggia il compleanno di quel viaggio fra Europa e America con un altro viaggio, quello bellissimo di Hirayamaautour de sa chambre” (o “son quartier”). Ancora il titolo di una canzone, non a caso perfettamente coetanea di “Alice”: “Perfect day” di Lou Reed (“Proprio una giornata perfetta / mi hai fatto dimenticare me stesso”), però al plurale, “days”. Le tante giornate, uguali e diverse; le piccole variazioni sul tema, gli incontri casuali. E qui torniamo allo zen e alla motocicletta. Perché Hirayama, da casa sua, senza chiedersi come e perché, giunge là dove mira il viaggio intellettuale di quel libro così fortunato: rintracciare quel punto, “oscuro e lontano, in cui ragione e ‘Qualità’ si sono staccate”. Hirayama non è un alienato che lustra di giorno i cessi degli altri e di notte ha una doppia vita negli slums. Hirayama fa un mestiere da avventizi, come sono i suoi giovani colleghi, non sappiamo da quando e fino a quando né perché, con lo scrupolo per il bene pubblico di una cultura orientale aristocratica. Immerso nell’affollata solitudine di una metropoli, parla poco, ascolta molto, lasciando un segno in quelli che incontra e che lo lasciano in lui. Non si chiede come sarebbe il mondo se tutti facessero come lui: certo i servizi pubblici – tutti, non solo i “pissoirs” – sarebbero meravigliosi. E che dire, di quegli incredibili bagni (proprio nel senso di bath) che persino la nipotina si trova a frequentare con piacere superiore a quello di casa sua?  Sa che non tutti fanno come lui e che ognuno di noi è un mondo a parte. Fa del suo meglio, in ogni ora della giornata, per essere in armonia col mondo, col cielo e con la terra, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno e imparando da tutti. Guardando in alto ogni mattina, fra nuvole e sole, fra riso e pianto.

Nessuna “lezione di umiltà” (figurarsi). Nessuna pedagogia. Hirayama sa di avere raggiunto l’età in cui “quel che hai fra le orecchie è più importante di quel che hai fra le gambe”, come dice la grande Hanna Schygulla in “Povere creature” di Lanthimos, e in cui la cosa più importante è mantenersi vivo. Non siamo ambasciatori di niente, neanche del “nuovo che avanza”.  Il mondo va avanti benissimo con e senza di noi e se qualcuno – per età, per passione, perché sta bene così – apprezza ancora le audio cassette di cinquant’anni fa o la fotografia analogica (e qualche ragazzino che non le ha mai viste né sentite si diverte a rubargliele) va bene così. Fuori c’è gente che aspetta, senza fretta, che il cancro faccia il suo sporco lavoro. Ci sono i grattacieli, le auto, i treni, gli aerei, le funicolari, le autostrade informatiche e il pulviscolo dei bit che trasferiscono istantaneamente da un punto all’altro del mondo pensieri e parole affidate, al tempo di “Alice”, alla selva di antenne sulle case, ai fili del telefono, del telegrafo e della luce. Oggi fra i rami degli alberi in cielo è sgombro, quando è sgombro, mentre un piccolo uomo in pace col mondo (che non significa felice) mangia fra gente che vede tutti i giorni, ascolta una donna cantare superbamente in giapponese “La casa del sole” o porta un ragazzetto matto a morosa con la sua macchina. Cioè abita quel punto in cui “ragione e Qualità”, dopo essersi allontanate, si ritrovano.

Nulla di misterioso, o meglio, qualcosa sì. Il fatto che “Perfect Days” sta piacendo a tutti: alle “pantere grigie” – che ne sembrerebbero i naturali destinatari – ma anche a tanti ragazzi attratti dai ritmi così insolitamente placati, per una metropoli occidentale qual è in fin dei conti Tokio, della vita del suo protagonista. Una seducente sintesi fra moderno e premoderno, simbolo di una doppia possibile vittoria: sui tavoli della modernità più ardita e di una dolcezza del vivere che è sempre nostalgia di un tempo alle nostre spalle. Suggestione non priva di contraddizioni (la felicità non esiste e non c’è seduzione senza inganno) ma in grado di fare della vita di Narayama, un bellissimo teorema esistenziale.