Come vivremo insieme? Se lo sono chiesti gli architetti e gli artisti invitati alla 17. Mostra Internazionale di Architettura, aperta ai Giardini, all’Arsenale, a Forte Marghera, fino a domenica 21 novembre , curata da Hashim Sarkis e organizzata dalla Biennale di Venezia. 

The listener (2021) Giuseppe Penone – Foto di Fabio Omero su Flickr

Una mostra coinvolgente, visionaria, anche caotica nell’affrontare la crisi climatica, le migrazioni, la sostenibilità ambientale e sociale, le disuguaglianze razziali ed economiche. Dai 112 partecipanti, provenienti da 46 paesi, per lo più Africa, America Centrale, Asia, la risposta non può che essere alternativa, creativa, spiazzante, fertile. ”La domanda presente nel titolo How will we live together? è stata da tutti riconosciuta come profetica, ancora prima della pandemia.

126 anni di storia della Biennale dimostrano come la sua contemporaneità travalichi le stesse forme d’arte che rappresenta accogliendo l’insegnamento, il pensiero, la provocazione di artisti provenienti da tutto il mondo- ha chiarito il presidente Roberto Ciccutto- Se c’è una cosa che in questo mio primo anno di presidenza mi ha toccato con più forza, è stato cogliere quale incredibile punto di osservazione la Biennale ci offra: una mappa geopolitica del mondo che mette assieme le realtà più diverse dal punto di vista politico, economico e della condizione umana di quegli artisti che si incontrano a Venezia, provenendo da tanti luoghi così diversi fra loro.

E l’Architettura è senza dubbio la disciplina che più direttamente può incidere in quella mappa, rilevandone le criticità e cogliendone gli aspetti positivi.

C’è chi non ritiene l’Architettura un’arte o al più la definisce “arte applicata”.

Tuttavia l’Architettura, al pari delle altre espressioni artistiche, trova la sua ragion d’essere proprio nel profondo legame che ha con la vita e con la società, quando attraverso la sintesi creativa è capace di rappresentare tutti gli aspetti del vivere umano. Paolo Baratta, che ringrazio per aver accettato di accompagnare questa edizione dopo averla affidata al Curatore Hashim Sarkis, dice nella sua presentazione: “Abbiamo confermato che tra gli scopi di una Mostra Internazionale c’era anche quello di sollecitare desiderio di Architettura….

E vorrei aggiungere che mai come oggi c’è necessità di Architettura”.

”Spazi in cui vivere generosamente insieme- ha chiarito Sarkis, sottolineando che  il mondo verrà salvato dagli architetti che garantiranno il futuro del dopo Covid. Come?  Immaginando e progettando spazi felici, comuni in cui i bambini giocano insieme, le terrazze sono piene di fiori, le strade frequentate da poche macchine, gli alberi che fanno da padrone. “ In un contesto caratterizzato da divergenze politiche sempre più ampie e da disuguaglianze economiche sempre maggiori- ha spiegato-chiediamo agli architetti di immaginare degli spazi nei quali possiamo vivere generosamente insieme: insieme come esseri umani che, malgrado la crescente individualità, desiderano connettersi tra loro e con le altre specie nello spazio digitale e in quello reale; insieme come nuove famiglie in cerca di spazi abitativi più diversificati e dignitosi; insieme come comunità emergenti che esigono equità, inclusione e identità spaziale; insieme trascendendo i confini politici per immaginare nuove geografie associative; e insieme come pianeta intento ad affrontare delle crisi che richiedono un’azione globale affinché possiamo continuare a vivere.» 

Cromòpolis (2019) Sawu Studio Spain – Foto di Fabio Omero su Flickr

I partecipanti alla 17. Mostra Internazionale di Architettura hanno dialogato con altri professionisti, anche con i cittadini comuni. Di fatto, la Biennale Architettura 2021 afferma il ruolo vitale dell’architetto ma chi entra alla Biennale Architettura vede poca “architettura”: perché va ricreato lo spazio, rivisto il territorio, reimpostate le relazioni sociali e spaziali, reinterpretate le superfici, riutilizzati i materiali.

Entrare alla Biennale Architettura è comunque sempre una bella esperienza: da tutto il mondo, arriva l’urlo che abbatte i confini razziali, che apre alle migrazioni, che implora un diverso uso del suolo, dell’acqua, del clima, della terra. Una preghiera corale si leva dai padiglioni, perché l’uomo si fermi, ascolti le richieste che vengono dall’alto, dal basso, dal fluido, dal duro: le proposte sono provocatorie, miste, impossibili, irraggiungibili. Ma una cosa è certa: così non si può andare avanti. Lo dicono gli architetti di tutto il mondo, con gusto, con discrezione, con azzardo, con provocazione. La parola è la stessa: non c’è più tempo per la terra, non c’è più tempo per l’uomo. Avanti così e il pianeta si distrugge. Cosa fare? Vivere insieme, è la risposta per sostenerci, per aiutarci, per guardarci negli occhi e dire: fermiamoci! 

Una lettura, una riflessione dell’architetto trevigiano Mario Gemin: “Nelle corderie, l’architetta libanese Lina Gothmeth espone il suo progetto: “Stone Garden” a Beirut. E’ un grattacielo interamente rivestito con un intonaco lavorato a mano, dalla calda tonalità sabbia. Si tratta  di un lavoro in antitesi con il linguaggio international style, imperniato sull’impiego dell’acciaio e del vetro. L’opera di questa architetta, nata a Beirut nel 1980, con studio a Parigi, rappresenta una sintesi perfetta di sapere artigianale e riproposizione di un linguaggio che privilegia la tradizione mediterranea contro l’uniformità del grattacielo “courtain wall”,  di matrice anglosassone. Si tratta di uno dei rari esempi di architettura costruita in questa Biennale che è più assimilabile alla Biennale d’Arte. Un’altra eccezione è il Padiglione del libro ai Giardini, opera di James Stirling,  che accoglie le fotografie delle architetture realizzate da Rafael Moneo in più di 50 anni di carriera. Meritatissima l’assegnazione  del Leone d’oro a questo maestro, nato a Tudela nel 1937,  con all’attivo opere realizzate in tutta la Spagna e negli Stati Uniti. Unica opera non realizzata, il Palazzo del Cinema al Lido di Venezia che è presente in mostra con un modello ligneo. Concettualmente interessante è il Padiglione Inglese, focalizzato sul contrasto alla privatizzazione dello spazio pubblico, in atto da alcuni anni”.

Reconditioning our modern heritage (2021) Othernity Foto di Fabio Omero su Flickr

Alla Biennale di Venezia, sono molte le suggestioni che vengono dai paesi dell’America Latina: lo spazio da preservare e la cultura da sostenere e da diffondere a chi vive lontanissimo dai centri urbani: la libreria “flottante” è un’interessante proposta, fattibile, da mettere subito in atto così come la casa dalle forme morbide, sinuose, che si confonde con il suolo ma che da questo prende energia e vigore.

Un punto di domanda nasce a proposito del Padiglione Italia, firmato Alessandro Melis: il tema declinato su “Comunità resilienti”, sarebbe stato un attimo punto di vista sul territorio ma il visitatore deve fare i conti con il buio, l’oscurità che lo avvolge appena entrato dentro, nel Padiglione: sconcerto e confusione. La rinascita? Dall’Università di Padova e dall’Orto Botanico, viene la risposta: si riparte dai semi delle Biodiversità, si ricomincia dalla terra! “L’idea- ha detto Melis- è quella di inserire, come dicono Christopher Alexander e Kevin Lynch, degli elementi e spazi che rendono la città tale, filtrata dalla vita. Ad ogni punto del decalogo, corrisponde in mostra, un’installazione come se fossero monumenti al centro delle piazze o angoli di città. Ad esempio, al centro di Architectural Exaptation c’è una struttura che si chiama Spandrel, una banca del seme costituita da montanti disegnati ispirandosi alla coda dello Xenomorph di Alien. Come in uno spazio urbano, la comunicazione non parla solo la lingua dell’architettura ma usa linguaggi di contaminazione, quello del cinema, teatro, fumetti”. 

In conclusione, commenta l’architetto Guido Zucconi: “nei padiglioni si privilegia sempre più l’idea allestitiva a discapito dei contenuti. In questo modo la Biennale d’Architettura e quella dell’Arte diventano indistinguibili”.