Foto di 139904 da Pixabay

Il Museo Carnavalet è il Museo della Storia di Parigi, dalle origini ai nostri giorni. È situato nel fascinoso quartiere del Marais ed è costituito da due antichi palazzi, collegati tra loro da una galleria al primo piano. Da ultimo, è improvvisamente balzato agli onori della cronaca a causa della decisione della sua Direzione di sostituire i numeri romani con i numeri arabi nelle didascalie delle opere esposte, «per non creare ostacoli alla comprensione dei visitatori».

L’episodio ha un precedente. Lo stesso aveva fatto il Museo del Louvre, senza suscitare clamore. Stavolta ne è nata una polemica che ha travalicato i confini della Francia, esplodendo anche in Italia. Nel Bel Paese, quella decisione è stata criticata aspramente. Si è arrivati a parlare di «catastrofe culturale»; di barbare vague, «onda barbarica», che cancella pezzi di storia dell’Umanità, sulla scia della politica di Stalin; di decisione che cancella una parte dell’identità nazionale dei Francesi (con riferimento al fatto che i Galli transalpini si evolvettero storicamente attraverso l’assimilazione della Civiltà Romana, diventando Gallo-Romani); di dittatura dell’ignoranza; altri, più ponderatamente, hanno approfittato dell’occasione per mettere in guardia contro il rischio di ipersemplificazione delle informazioni, che aggrava i vuoti della formazione umanistica di base; o hanno evidenziato come la promozione della cultura non si persegua eliminando le cose difficili, ma spiegandole in modo facile (Mary Barbara Tolusso, I numeri arabi scacciano quelli romani. Nei musei una scelta a favore dei visitatori, Il Piccolo, quotidiano di Trieste, 23 marzo 2021, con dichiarazioni di Massimo Gramellini, Giovanni Grandi, Tiziana Gibelli, Maurizio Cucchi, Paolo Camarosano).

Inutile entrare nel merito di dichiarazioni di chi giudica l’intento del Museo Carnavalet come «una cancellazione staliniana della Storia», e trae spunto da esso per parlare di una nuova calata dei barbari, con toni di «Annibale alle porte!». Tali affermazioni, attribuite a una personalità politica, hanno un evidente carattere iperbolico e appaiono propagandistiche.

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Il fatto va visto per quello che è: un tentativo di rendere fruibile il patrimonio culturale anche a coloro che non hanno fatto il Liceo Classico. Mi sembra una finalità encomiabile, di cui va reso merito a persone che, in aggiunta all’esercizio della funzione di conservazione dei beni culturali, si pongono il problema di come fare per promuovere al meglio la conoscenza degli stessi beni, non solo tra il pubblico colto.

Pertanto, il problema posto all’attenzione non è quello di un preteso scadimento della cultura, ma quello della fruibilità di questa. La cultura — vedi per esempio gli studi umanistici, in particolare la Storia — non è “una riserva di caccia” degli specialisti, ma un luogo di esercizio dei diritti e delle libertà della Repubblica, di ogni repubblica, di ogni democrazia.

Lo dico con riferimento al fatto che, spesso, in Italia, gli storici pubblicano i risultati della loro ricerca per parlarsi tra loro. Quei lavori danno spesso per scontata la conoscenza dei fatti e delle loro connessioni, quando questa non lo è affatto per i “non addetti ai lavori”. Il risultato è che quegli scritti risultano illeggibili a un’ampia fetta del pubblico interessato.

Foto da bozzetto di Alessandro Coluccelli

La risposta degli autori (ma anche, a volte, degli editori) è bell’è pronta: i libri di Storia sono libri di nicchia. Questo non è esatto. I potenziali lettori sono assai di più di quelli che si può immaginare. Gli organi d’informazione hanno dato negli ultimi anni ampio risalto al fatto che, a Trieste, si è più volte verificato che migliaia di comuni cittadini accorressero per assistere a conferenze pubbliche su temi di Storia in un grande teatro.

Prendendo esempio dai conservatori del Museo Carnavalet, occorre che in Italia si faccia di più per promuovere la cultura, anche nel senso di divulgarne la conoscenza, a beneficio di tutti. Se è vero — come è vero — che “la Storia è maestra di vita”, è giusto e sacrosanto che, in una Repubblica, lo sia di tutti.

 

Foto di apertura di Katie Rose da Pixabay