Fu celebre, a suo tempo, una battuta di Romolo Valli sul set di “Novecento“: “Attento, Bernardo, che troppi ‘hommages‘ fanno un ‘plage‘”. Ecco, questo, più o meno, era il plagio, un po’ per tutti, fino a non molto tempo fa. Ma il reato che fino al 1981, quando fu abolito dalla Corte Costituzionale, l’articolo 603 del codice penale designava come “plagio” nulla aveva a che vedere con la tutela della proprietà intellettuale. Ricalcato su un istituto del diritto romano che colpiva chi riduce in schiavitù un uomo libero, questo reato, assente dal codice Zanardelli, estendeva l’antica ipotesi della riduzione in schiavitù al caso di chi sottomette al proprio potere una persona attraverso le temibili arti dell’assoggettamento psicologico: l’attrazione, la seduzione, la fascinazione intellettuale. Il reato, cioè, di chi tiene in pugno il tuo cuore: il “cattivo maestro”, l’amante malvagio. Invocato in giudizio due volte in mezzo secolo, alla terza il giudice sollevò finalmente il caso innanzi alla Corte Costituzionale, che provvide ad abolirlo. Impossibile circoscrivere “razionalmente” i campi del lecito e dell’illecito in materia di attrazione, sessuale o intellettuale, si argomentò. Di questo si era trattato, in entrambi i processi giunti a sentenza – di assoluzione nel primo caso, di condanna nel secondo – fra il ‘67 e il ‘68: di seduzione.  E doveva essere davvero spettacolare quanto accadeva in quegli anni nelle strade, nella famiglia, nella scuola, perché qualche mente meno sorvegliata dovesse accedere all’idea della seduzione – etero od omosessuale – come qualcosa di demoniaco; frutto perverso di menti raffinatissime dedite alla corruzione dei maggiorenni. Perché di maggiorenni si trattava, in tutti e due i casi, e allora lo si diventava a ventun anni.

Se la storia in genere si presenta due volte, prima come tragedia poi come farsa (così, più o meno, asseriva Marx), quella del reato di plagio fu in controtendenza: la farsa precedette il dramma. Il primo ad essere trascinato in giudizio con questa accusa, fu infatti, nel 1967, Maurizio Arena, il “principe fusto“, simpatico co-protagonista della trilogia di Dino Risi sui poveri ma belli, accusato di “immoral suasion” nei confronti di Maria Beatrice di Savoia, al termine di una breve relazione conclusa per lei con un ricovero in clinica. Romoletto che plagia la Principessa Reale! Per sua fortuna, l’attore non ebbe a patire il carcere (ma il ritiro del passaporto sì), prima di venire assolto sulla base di un referto medico che lo scagionava da qualunque responsabilità per lo stato mentale un po’ scosso (diciamo così) della principessa. Ma il caso di gran lunga più importante di processo per plagio, quello che ne avrebbe dominato la storia giudiziaria fino all’abolizione fu, nel 1968, quello a un controverso professore, poeta e drammaturgo piacentino, Aldo Braibanti, ed ebbe molte delle caratteristiche di un processo a Socrate.

Quando nel 1996 il mio ufficio si trasferì al Ghetto, in Piazza delle 5 Scole, fra la Sinagoga e il Portico d’Ottavia, i lavori di restauro di quel quartiere, sede di una delle più antiche comunità ebraiche del mondo e rimasto pressoché intatto da prima che i muraglioni lungo il Tevere lo proteggessero dalle ricorrenti inondazioni, non erano ancora iniziati. In tre anni – incombeva il Giubileo del 2000 – lo storico quartiere fra il Lungotevere Cenci, via Arenula e via delle Botteghe Oscure, su su fino a piazza dell’Ara Coeli e al Teatro di Marcello, cambiò volto: facciate, piazze, pavimentazioni, circolazione e arredi. Anche via del Portico d’Ottavia, spina del Ghetto e luogo dell’infame retata che portò migliaia di ebrei romani ad Auschwitz, conobbe questo rinnovamento urbanistico. A lungo ne rimase una, di queste case, la più fatiscente di tutte, non toccata dai restauri. Un portone che metteva in un cortile tanto malmesso da creare disagio a entrarci. Cadenti le pareti, le scale, i ballatoi. Era “la casa di Braibanti“, il professore di cui nessuno o quasi avrebbe saputo dire qualcosa che non riguardasse un famoso caso giudiziario di trent’anni prima, per lo più dimenticato. Sfrattati nel 2005 dai nuovi proprietari, il professore, la biblioteca e quel formicaio che era stato immenso (era una sua passione lo studio della vita delle formiche, come per Giovanni Berlinguer quella delle pulci, pur non essendo entomologi né l’uno né l’altro) presero la via di Castell’Arquato (PC), il paese da cui era partito quarant’anni prima (era nato nei pressi, a Fiorenzuola d’Arda) e dove morì nel 2015 in povertà, lenita dal contributo pubblico della legge Bacchelli, riconosciutogli dal governo Prodi. Una settimana fa avrebbe compiuto cent’anni.

Carmelo Bene lo considerava “un genio straordinario” (“Vita di Carmelo Bene“, Giancarlo Dotto) “Mi sentì un giorno che leggevo Dino Campana. ‘Il più grande poeta italiano’, disse. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco”. Pasolini illuminò come nessuno la personalità di un artista orgogliosamente elitario, caratterialmente scostante, forse affascinante (qualità da rivedere), negato a qualunque forma di autopromozione: “Se c’è un uomo mite nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria… Invece egli si è rifiutato d’identificarsi con una qualsiasi di queste figure – infine buffonesche – di intellettuale“.

Laureato in filosofia, dirigente partigiano in Toscana, prima in una brigata di Giustizia e Libertà poi in una comunista; arrestato due volte, la seconda delle quali da una famigerata banda di torturatori, riuscendo ad uscirne vivo, fu dirigente dei giovani comunisti e poi del PCI fino al ’56, ma la sua vocazione non era la politica: erano il cenacolo artistico e, al suo interno, il lavoro seminale. Ne organizzò e diresse uno nel Torrione di Castell’Arquato. Drammaturgo di testi poco rappresentati, poeta di poesie per lo più ignote, co- fondatore con i fratelli Bellocchio, Goffredo Fofi e Grazia Cherchi di una rivista importante come i “Quaderni Piacentini” (di cui fu saltuario collaboratore, come lo fu di “Marcatre“, con colleghi come Eco, Barilli, Dorfles), collaborò a lungo con Sylvano Bussotti, il musicista. Numerosi sono i grandi della cultura italiana al cui lavoro fornì illuminazione e scintille. Avrebbe continuato a condurre la vita artistica che prediligeva, dietro le quinte della più rinomata avanguardia teatrale, poetica, musicale e cinematografica (il lavoro con Alberto Grifi) italiana, al riparo da qualunque ambizione di notorietà, se non avesse affascinato e portato con sé a Roma il figlio minore (e quello maggiore, che però aveva rotto i rapporti con lui) di un’atroce famiglia cattolica del suo paese. Una famiglia disposta a far rapire e ricoverare il figlio in compiacenti manicomi (questa è anche una storia prebasagliana di abusi e sevizie psichiatriche per cui nessuno ebbe mai a pagare), piuttosto che saperlo in una relazione omosessuale. Furono i principali attori del processo per plagio al corruttore di giovani menti instabili.

Nell’ultimo anno due film e una singolare iniziativa giornalistica su Facebook hanno riportato al disonore del mondo il processo Braibanti, dopo cinquant’anni di imbarazzato oblio. I film sono “Il caso Braibanti“, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, e “Il signore delle formiche“, di Gianni Amelio; l’iniziativa social è quella di un giornalista fidentino, Ivano Sartori, che due anni fa, quando tutti erano chiusi in casa a farsi venire idee per la ripresa e il caso Braibanti, complice il centenario, si ripresentò alla memoria, pensò bene di scriverci su un vero e proprio libro. Libro che, servendosi di facebook come dei vecchi feuilleton, sta pubblicando a puntate (trenta, poi ridotte a ventitré) sulla sua bacheca. Al momento siamo a metà; fine prevista, il 20 settembre. A lui rimando per il racconto minuto dei fatti. Sartori è scrupoloso, redige il suo resoconto in scienza e coscienza e segue – saggiamente – il metodo La Capria, quello del tuffo. La prima puntata dice l’essenziale. Le altre sviluppano l’argomento, “tirano la sfoglia” degli anni di processi e reazioni, ma il “pane” è già tutto lì. Cioè QUI.

Dei due film cui accennavo, il primo (“Il caso Braibanti“) nasce come lavoro teatrale, portato In scena dieci anni fa a Napoli e poi, un po’ alla spicciolata, in tutta Italia (ultimamente a Milano, al Franco Parenti). Divenuto film (un’ora) è oggi disponibile su una piattaforma a vasto impatto come Amazon Prime e vale anch’esso come indagine e riflessione sui fatti, in compagnia di alcuni dei viventi (ma Piergiorgio Bellocchio già non lo è più) allora presenti: Lou Castel, Dacia Maraini, Maria Monti (allora attrice con Carmelo Bene e Paolo Poli), ecc. Il secondo, “Il signore delle formiche“, è il motore di questo articolo, e potremmo considerarlo il reciproco del documentario di Giardina e Palmese, un percorso dal cinema al teatro. È infatti, nella sostanza, un dramma di impianto teatrale, con sei scene (il Torrione, la festa gay, il manicomio, il carcere, il giornale – L’Unità – e naturalmente il tribunale) immerse nella campagna fra Parma e Piacenza, più ancora che negli spazi romani del ghetto e di Piazza Cavour. “Il signore delle formiche” è un dramma ricalcato sul caso Braibanti, non ne è la storia. Non solo perché tutti i personaggi tranne il protagonista (incarnato da Luigi Lo Cascio) hanno un nome diverso da quello reale, ma perché molte sono le libertà che Amelio si prende nei confronti di una vicenda che oggi appare marziana a chiunque (la coscienza comune ha ormai metabolizzato tanto la libertà del comportamento sessuale di fronte alla legge, quanto l’abolizione dei manicomi e ciò che comporta) nell’intento di spostare l’oggetto della discussione dalla semplice rivendicazione civile di una libertà nei comportamenti a quella di una pari dignità di ogni forma d’amore. Non più (solo) libertà, nel nome del “neminem ledere”, ma accoglienza e dignità. Un obiettivo per cui l’interlocutore non sono le istituzioni, ma le coscienze. E il terreno non è più solo quello della “tolleranza” (nella sua accezione più banale), ma quello delle emozioni e dell’accoglienza. “Il signore delle formiche” è la storia dell’incontro difficile fra un cronista di nera che si ritrova, per gli impegni e la sufficienza dei colleghi, a seguire professionalmente una vicenda lontana dai suoi interessi e di un professore diversamente simpatico che si sente, giustamente, il protagonista di una vicenda surreale. “I tedeschi erano nemici; arrestavano, fucilavano, torturavano, era tutto molto reale. Qui sembra tutta una farsa“, assurda, inconcepibile. C’è un colloquio in carcere dove i due si capiscono e due magnifici attori (Lo Cascio e Elio Germano) si passano gesti e battute da mostri sacri della scena. E ce n’è una in tribunale in cui un esordiente (Leonardo Maltese) dà una prova di enorme densità, in un quarto d’ora a macchina fissa. Sono i grandi attori a fare il grande teatro e non mi meraviglierei di vedere trasposto sulla scena il conflitto fra il professore che si credeva chissà chi e scopre una fragilità e una ferita che non conosceva (“Plaisir d’amour…” dice la canzone, con quel che segue) e il giornalista col cappello fisso in testa che invitato a toglierselo in tribunale per rispetto alla Corte dice “vediamo se se lo merita“. Sono i grandi attori a fare il grande teatro. E questo, modestamente, lo è. Anche nella dignità e nel tracollo dell’anziana madre di Braibanti (Rita Bosello); nell’agghiacciante, distruttivo amore della madre del ragazzo (Anna Caterina Antonacci, cantante lirica), disfatto da anni di pratiche psicoclastiche, più che psichiatriche; nella generosa combattività della cugina del giornalista (Sara Serraiocco)


E poi ci sono gli “hommages”, sempre cospicui in Amelio, cinefilo efferato. Le scene con la madre del ragazzo e quella della testimonianza devono molto al cinema di Marco Bellocchio, produttore del film, e suscitano il ricordo di quella violenza sarcastica che ci innamorò e che ancora riappare, qui e là, come un’intonazione, nei film recenti a narrazione più classica. Come quella di Amelio. Poi c’è la campagna. Amelio, che sul set di “Novecento“, aveva girato uno dei suoi primi documentari (“Bertolucci secondo il cinema“), lo ricorda in una sequenza fortemente evocativa: la panoramica nel bosco di pioppi con il cavallo a mano. Ma l’omaggio più sentito al cinema del maestro parmigiano Amelio lo riserva a “La luna“, il film della Madre – e del padre che non c’è, rifiutato e ritrovato – più volte citato nelle due ore abbondanti del film, con quel ritorno ai luoghi della villa di Verdi, al confine esatto fra le province di Parma e Piacenza, di pochi metri in provincia di Piacenza. Da cui quel conflitto per la rivendicazione di conterraneità del grande musicista fra i melomani delle due province, oggetto di una delle meraviglie di Bellocchio: il mediometraggio “Addio del passato“. “La luna” è certo il più “ameliano” dei film di Bertolucci. Ma questo è il tema dei temi per un cinema come il suo, tutto centrato sulla ricerca di un padre allontanatosi da casa quando il futuro regista era bambino.