La carica dei 600 è partita: tanti sono rimasti i parlamentari dopo il taglio drastico della scorsa legislatura. Non più 630, ma 400 deputati; non più 315, ma 200 senatori.

Cambiano i numeri, cambia la sostanza. Le nuove Camere, più snelle, saranno anche più simili, perché votate dallo stesso corpo elettorale. Per la prima volta, infatti, anche i diciottenni ricevono la scheda gialla del Senato, fino ad oggi riservata a chi aveva compiuto 25 anni. Il Senato resta il ramo più “maturo” del Parlamento, se si guarda all’anagrafe degli eletti. Ma non lo è più se si guarda all’anagrafe degli elettori, che sono gli stessi della Camera. Riforma importante questa, e passata quasi inosservata rispetto all’altra, quella del taglio all’organico parlamentare.

La “sforbiciata” è stata accolta con manifestazioni di giubilo quasi universale. Però presenta anche evidenti controindicazioni. La prima è quella di compromettere la funzionalità del prossimo Parlamento: soprattutto della Camera dei deputati, che a differenza del Senato non ha adeguato il regolamento interno (e quindi l’attività di gruppi, commissioni, organi di garanzia) ai nuovi numeri, più ridotti.

Palazzo Montecitorio Roma di Manfred Heyde – licenza CC BY-SA 3.0.

Ma il rischio maggiore è quello di veder aumentare la distanza fra elettori ed eletti.  I collegi sono diventati più grandi, sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. L’Italia è divisa in 151 collegi uninominali per la Camera, e appena 74 per il Senato. In alcuni casi (Abruzzo, Molise, Basilicata, Friuli Venezia Giulia) il collegio del Senato coincide con il territorio della Regione. Ancora maggiore la distanza dai candidati del proporzionale, distribuiti in 75 collegi plurinominali (49 per Montecitorio, 26 per Palazzo Madama) . È vero che i loro nomi compaiono sulla scheda, accanto al simbolo del partito, ma l’elettore non può scegliere, né esprimere preferenze. I candidati saranno eletti in base all’ordine di lista, che è stato deciso dalla segreteria del partito. E a volte venire spostati da una regione all’altra (il cosiddetto effetto “flipper”) in base al calcolo dei resti nei collegi plurinominali della Camera.

Al Senato – che viene eletto a norma di Costituzione su base regionale – il rischio è un altro: quello di tagliare fuori medi e piccoli partiti, che pur superando la soglia del 3 per cento non riescono a eleggere alcun senatore nelle regioni più piccole, quelle che assegnano meno seggi. Uno sbarramento di fatto, molto al di sopra del 3 per cento. Il risultato è quello di lasciare interi territori senza alcuna rappresentanza parlamentare.

È il paradosso del “Rosatellum”, un sistema elettorale che, con i suoi giochi a incastro, consente di conoscere con buona approssimazione già alla vigilia del voto i nomi di chi entrerà in Parlamento e di chi ne resterà fuori. Il verdetto delle urne può spostare al massimo un terzo dei seggi in palio: gli altri due terzi – liste in una mano e sondaggi nell’altra – possiamo già sapere prima a chi andranno. Non è questo il modo migliore per combattere la piaga dell’astensionismo. Che tutti denunciano, ma pochi cercano di contrastare.

Urne elettorali – Ministero dell’Interno – licenza CC BY 3.0.

Non aiuta votare in una sola giornata. Non aiutano le schede elettorali indecifrabili anche da chi ha una buona dimestichezza con la politica.  Non aiuta il numero dei candidati paracadutati da un territorio all’altro per i capricci delle segreterie e delle correnti di partito. Non aiutano le regole, i divieti e gli algoritmi che condizionano l’informazione in campagna elettorale.  Si ha quasi l’impressione che più cresca il numero delle liste, dei simboli, delle offerte nel supermarket della politica, più aumentino la confusione e   la rassegnata diffidenza – se non l’aperta ostilità – dei cittadini.  Ma ogni inizio di legislatura porta sempre con sé anche qualcosa di nuovo e d’inedito. È l’insostituibile scommessa della democrazia.

 

Foto di apertura: Di Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=114948448