Si chiamava Marie Luise Cruz, figlia di un Apache e di una donna “bianca” che siccome in Arizona i matrimoni misti erano illegali a sposarsi erano dovuti andare in California. Un’infanzia difficile, con un padre alcolizzato e violento, una madre poco responsabile, la tenda a ossigeno a tre anni per tubercolosi, i nonni come famiglia. Una vita da riserva indiana. Graziosa e minuta, i primi passi come modella e attrice e poi l’attività politica per i diritti della sua gente, che a vent’anni le procura le prime conoscenze importanti nel mondo del cinema. Niente di che, simpatie e basta: prima il clan Coppola, poi Marlon Brando. Che però nel marzo del ’73 si ricorderà di questa ragazza indiana, nel frattempo divenuta “Sacheen Littlefeather”, “Piccola Piuma”.

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.Il 27 febbraio del 1973 a Wounded Knee – Riserva di Pine Ridge, South Dakota – luogo di uno dei più feroci fra i massacri di indiani, duecento Sioux Lakota (Ogdala) e numerosi rappresentanti del Movimento degli Indiani d’America (AIM) occupa la cittadina per protesta contro il Presidente della Riserva Richard Wilson e, non tanto indirettamente, contro il governo americano. Principale organo di autogoverno della Riserva, strutturato secondo il modello del Presidente degli Stati Uniti (c’è perfino l’istituto dell’impeachment), il Presidente è in realtà una sorta di governatore coloniale per conto del governo americano. Wilson, che “governa” con l’aiuto di una squadra di giannizzeri, vera e propria milizia personale, e di quei “trafficanti d’armi e di alcool che stanno distruggendo le riserve indiane” (Umberto Eco, “Lettera a mio figlio”, 1964), è un mezzosangue accusato dai nativi Ogdala di malversazioni di ogni tipo, dall’omicidio in giù. I manifestanti, fra cui alcuni senatori, chiedono la revisione dei peraltro violatissimi trattati costitutivi della riserva. Durerà fino all’8 maggio, quando il governo avrà ragione dell’occupazione con un accordo che maschera le maniere forti. Wilson fu rieletto e la sua milizia personale si rimise all’opera. La povertà e i delitti crebbero nella riserva, coinvolgendo anche l’AIM secondo l’antica tecnica “corruzione e sospetto”. Alcuni oppositori più fastidiosi, fatti subdolamente passare per spie dell’FBI, cadono per mano di una sempre più corrotta AIM. I processi contribuiranno a squalificarla ulteriormente. Crescente favore mediatico per la causa degli Amerindi, qualche successo in giudizio (pochi) nelle cause che seguiranno a carico dei senatori che avevano partecipato all’occupazione (gente che conta). Niente, nella sostanza, avrà ottenuto la protesta. Fra i tanti personaggi famosi presenti a Wounded Knee molto si parla di Marlon Brando.

Beverly Hills, California. 29 marzo 1973, si assegnano gli Oscar. Conduttori della serata Liv Ullman e Roger Moore. Quando la musa di Bergman, con evidente imbarazzo, annuncia il vincitore del premio per il miglior attore (Marlon Brando per “Il padrino”), sul palco sale lei, Piccola Piuma, con alcuni fogli: Brando è a Wounded Knee e ricusa il premio. Ha preparato il discorso di non accettazione e scelto lei per leggerlo. Non le verrà consentito. Nel baillamme di reazioni di ogni tipo (applausi, fischi, boo e quant’altro), nel tempo imposto di un minuto, dirà, con atterrito sgomento, l’essenziale. L’aneddotica della serata parla di un John Wayne (l’adorato Ringo di “Ombre rosse”, l’intollerabile coglione dei “Berretti verdi”, qui nella seconda modalità) trattenuto a forza dallo sbattere l’indianina giù dal palco e di un Clint Eastwood feralmente spiritoso che rende omaggio ai cowboy uccisi nei film di John Ford. Manca solo Chaltron Heston col fucile in spalla.

Mal gliene incoglierà a Sacheen Piccolapiuma. Quasi nessuno vorrà più nemmeno sentirla tossire, da quelle parti. Solo cinquant’anni dopo, nel nuovo clima risarcitorio degli Oscar, una cerimonia annunciata il 16 agosto di quest’anno per il mese successivo le consegnerà le scuse della comunità del cinema per il trattamento e l’ostracismo riservatole. “L’abuso che hai subito è stato ingiustificato, e il costo per la tua carriera nel nostro settore e il carico emotivo che hai vissuto sono irreparabili. Per tutto questo, porgiamo le nostre più profonde scuse e la nostra sincera ammirazione”. Il linguaggio è quello, insopportabile, in uso attualmente: “gli abusi che hai subito per il tuo discorso sono stati ingiustificati e totalmente inappropriati”. “Inappropriati”. “Ingiustificati”. Vabbè. Lei, sorridente, in carrozzella per la malattia, dirà più o meno: “che sono mai cinquant’anni per una gente paziente come la nostra?”

In ricordo. Se n’è andata il 2 ottobre scorso, Sacheen PiccolaPiuma, al secolo Maria Louise Cruz, per un tumore al seno. Tre anni dopo quel 23 marzo – venticinque anni li avevo io – quel discorso agli Oscar aveva trovato posto nel manifesto di una rassegna estiva sul western anni ‘50 organizzata con un amico alla villa Mazzacurati di Bologna. Mi si perdonerà il ricordo personale se lo riproduco qui, nella traduzione di Gianni Volpi per uno dei libri più belli su quello che è considerato il genere cinematografico per eccellenza. Nato nella redazione francese di “Positif” e tradotto per Feltrinelli dal gruppo di “Ombre rosse” (Volpi, Fofi, ecc.), si chiama “Il western – Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografie”, ottobre 1973. Se lo trovate – su una bancarella, inevitabilmente – non mancatelo. Vi piacerà.

 

Un tomahawk dissepolto

Per 200 anni al popolo indiano che lottava per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere libero, noi abbiamo detto: ”Deponete le vostre armi, amici, e noi vivremo insieme. Solo se deporrete le armi, amici, si potrà parlare di pace e arrivare ad un accordo che vi porterà la felicità”.
Quando deposero le armi, noi li assassinammo. Noi mentimmo loro. Li defraudammo delle loro terre. Li facemmo morire di fame per mezzo di accordi fraudolenti da noi definiti trattati e mai rispettati. Noi li riducemmo ad essere accattoni in un continente che aveva dato loro da vivere a memoria d’uomo. Né rendemmo loro giustizia con un’interpretazione della storia sempre distorta. Non fummo né legali né giusti. Non siamo tenuti a rendere giustizia a questo popolo, né a vivere secondo i trattati, in virtù del diritto che ci arroghiamo di infrangere i diritti altrui, di prendere le loro proprietà, di distruggere le loro vite se tentano di difendere la propria terra e la propria libertà, e di fare delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù.
Ma una cosa brucia il potere di questa perversione ed è il tremendo verdetto della storia. E la storia certamente ci giudicherà. Ma quale importanza ha questo per noi? Quale sorta di schizofrenia morale ci permette di strepitare per tutto il mondo che viviamo nella libertà, quando tutti gli assetati, affamati, umiliati giorni e notti degli ultimi cento anni di vita dell’Americano Indiano smentiscono questa voce?

Sembra quasi che in questa nazione il rispetto per i principi e l’amore per i propri vicini, siano diventati disfunzionali e che tutto quanto si è compiuto per opera nostra sia stato annichilire le speranze dei nuovi paesi, così quelli amici come quelli nemici, ossia che non siamo umani né rispettiamo le nostre stesse leggi.
Forse in questo momento vi chiederete che diavolo c’entri tutto questo con gli Academy Awards. Perché questa donna è qui in piedi, a rovinare la nostra serata, a invadere le nostre vite con cose che non ci riguardano e di cui non ci importa nulla?  A farci sprecare tempo e denaro intrufolandosi nelle nostre case?
Penso che la risposta a queste domande sia che la comunità del cinema, al pari di tutte le altre, ha avuto una pesante responsabilità nel degradare l’indiano, nel fare della sua personalità una caricatura, nel descriverlo come un selvaggio, ostile e demoniaco. È già abbastanza duro per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano i film alla televisione, e vedono la loro razza ritratta come nei film, le loro menti sono offese in modi di cui non riusciamo a renderci conto.
Di recente sono stati fatti pochi, incerti passi per modificare questa situazione, ma troppo incerti e troppo pochi, e pertanto io, in quanto membro di questa professione, in quanto cittadino degli Stati Uniti non mi sento di accettare un award qui questa sera. Penso che i premi in questa terra, in questo momento non possano essere dati né ricevuti o assegnati finché la condizione dell’Americano indiano non sarà radicalmente mutata. Se non siamo i tutori del nostro fratello, almeno facciamo in modo di non esserne i boia..
Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho ritenuto di essere forse più utile a
Woonded Knee, a prevenire, per quanto è in mio potere, una pace disonorevole finché i fiumi scorreranno e l’erba crescerà.
Spero che non consideriate questa una brutale intrusione, bensì un serio sforzo per attirare l’attenzione su una stirpe in rapporto alla quale si determinerà se questa terra ha o no il diritto di dire di vivere negli inalienabili diritti di tutto il popolo a rimanere libero e indipendente nelle terre che hanno nutrito la sua vita a memoria d’uomo. Grazie della vostra benevolenza e della vostra cortesia verso miss Piccola Piuma. Grazie, e buona notte.”

 

P.S: In molti articoli e titoli, in quegli anni e dopo, Sacheen sarebbe stata chiamata “piccola squaw”, forse un po’ fesso, ma per nulla offensivo nelle intenzioni. Ma molto tempo è passato, e qui sotto, nel link, trovate un articolo di 13 anni fa, non dettato quindi da recenti resipiscenze, di Cristina Carpinelli, che spiega come il termine da tempo sia ritenuto offensivo (pare significhi “fighetta”, nell’uso post coloniale dei conquistatori). L’articolo è interessante (negli anni persino la toponomastica di luoghi geografici che avevano il termine “squaw” nel nome è cambiata) e di utile lettura. Non cospargiamoci il capo di cenere, ma niente più “squaw”. Un altro appellativo che credevamo gentile è caduto in odore di insulto. Sopravviveremo.