Quando lo vedemmo in carcere per la prima volta Godot suscitò in noi detenuti un entusiasmo travolgente. In fondo è un testo sulla condizione umana, sulla persona. La nostra reazione di allora fu naturalmente la più ovvia. Eravamo dei reclusi dallo Stato californiano. La nostra vita consisteva nell’ aspettare la fine della pena, aspettare le visite dei parenti, aspettare il rancio o semplicemente aspettare dietro le sbarre. L’impatto con questo testo, insomma, fu notevole.” Rick Chuchey

19 novembre 1957.

Da due secoli è il monumento in ferro e pietra di quella concezione “retributiva” della pena (“hai fatto soffrire qualcuno, devi soffrire anche tu”), tutt’ora prevalente nell’opinione pubblica americana. È il carcere di massima sicurezza di San Quintino, secondo solo ad Alcatraz (chiuso da un pezzo) nella storia universale di questo tipo di infamia. Fino al 2019, ospitava il braccio della morte più frequentato di tutti gli Stati Uniti (700 persone, permanenza media 25 anni) prima dello sgombero disposto dall’attuale governatore. Il quale, non potendo fare altro, li ha distribuiti nei vari istituti californiani di massima sicurezza. C’è anche la camera della morte più “moderna”, a San Quentin. Modernissima, dopo la ristrutturazione (180.000 dollari) decisa dal Parlamento contro il parere dello stesso governatore repubblicano Schwarzenegger. Ventuno metri quadri di “camera di iniezione” e tre “aree di osservazione”: per famiglia, parenti delle vittime e stampa. Quella di prima, meno democratica, ne aveva una sola. Si sa, i tempi cambiano e bisogna rimanere al passo. Attende da 15 anni di essere inaugurata, la grande bellezza, e potrebbe non esserlo mai, ma è un simbolo. Come l’esistenza di un braccio della morte, del resto.

Samuel Beckett con Rick Chuchey

Eppure è in questo buco nero dell’umanità (metafora astronomica; più pertinente quella scatologica) che nel 1957 ha luogo la più famosa esperienza al mondo di teatro carcerario, cioè di teatro come strumento rieducativo all’interno degli istituti penitenziari, quella concezione tanto in uggia alla maggioranza degli americani. Qui, il 19 novembre 1957, gli attori del “San Francisco Actor’s Workshop” mettono in scena per i 1400 reclusi della struttura “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Sarà la madre di tutte le iniziative del genere e avrà sviluppi imprevedibili.  (Mirarchi e Gargagliano: “DPU, Diritto penale e uomo”.

 

…e con Jan Jonson

La messa in scena di “Aspettando Godot” a San Quintino è fra le prime in America. Tradotta in inglese dall’autore nel ’54, la commedia aveva visto fallire miseramente i tentativi di debutto a Washington e Philadelphia dell’anno successivo e schernite le prime due settimane “on stage” a Miami per un pubblico di vacanzieri. Solo nel ’56 la recensione del NYT avrebbe “sdoganato” l’opera per il pubblico americano, dopo la prima newyorkese. Samuel Beckett è probabilmente l’ultimo a stupirsi del successo di questa rappresentazione fra le sbarre (non di zucchero) del penitenziario californiano. Tre anni prima, infatti, nell’ottobre del ’54, aveva ricevuto una lettera dalla Germania, col timbro del penitenziario renano di Luttringhausen. “Sarà sorpreso”, diceva il mittente, “di ricevere una lettera su ‘Aspettando Godot’ da una prigione, dove un pubblico di ladri, truffatori, delinquenti, pazzi, froci ed assassini passa questa sua vita puttana aspettando… aspettando… aspettando. Aspettando cosa, Godot? Forse”. Un internato poliglotta aveva tradotto per conto suo in tedesco il testo appena pubblicato in Francia ed era riuscito a rappresentarlo in quel carcere appena nove mesi dopo la prima parigina. La prima rappresentazione dell’opera fuori dai confini di Francia e in una lingua diversa dal francese.

Gli sviluppi dell’azzardo teatrale di San Quintino li racconta alla cronista di “RepubblicaRick Chuchey  , uno di quei 1400, che, folgorato da questa esperienza, riuscirà con l’appoggio della direzione a costituire il “San Quentin Drama Workshop”,  che per dieci anni rappresenterà tutto Beckett in una saletta da 65 posti allestita nel penitenziario. Ottenuto il condono, prenderà contatto con il grande irlandese ricevendo l’invito per un incontro a Parigi presso il centro culturale americano. Ne sortirà uno dei più originali sodalizi teatrali del Novecento, che per molti anni porterà in giro per il mondo, diretti dallo stesso Beckett, “Aspettando Godot”, “Finale di partita” e “L’ultimo nastro di Krapp” in una tournée che nel 1984 toccherà l’Italia. Dove troviamo l’ex ergastolano divenuto capocomico intervistato da “Repubblica” a Pontedera.

Nino Buazzelli in “Mercadet l’affarista” di Honoré de Balzac. Da qui nascono, a metà dell’ottocento, l’idea e il nome di Godeau/Godot.

Teatro dell’assurdo”, d’accordo. Ma, dramma o commedia? Commedia, chiarissimo. La prima compagnia a rappresentare Godot in America (o a provarci) è quella di Alan Schneidet, che nel ‘64 dirigerà “Film”, il cortometraggio scritto da Beckett per Buster Keaton. E ad interpretare Vladimiro è Tom Ewell, il marito di “Quando la moglie è in vacanza”, di Billy Wilder, con Marilyn sul bocchettone d’aria che le alza la gonna. E una delle rappresentazioni italiane più conosciute e controverse è quella di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber (con Paolo Rossi e Felice Andreasi, colpito da un vuoto di memoria durante la prima a Venezia). E Balzac, a cui si devono il nome e l’idea del personaggio fantasmatico che, atteso ed invocato, non arriva mai e forse non esiste (il “Godeau” di “Mercadet l’affarista”, 1851), non aveva chiamato “Commedia Umana” la sua monumentale collana di romanzi e racconti? Beckett ha sempre intrigato e appassionato comici e umoristi. Come Carlo Fruttero, uno che di umorismo se ne intendeva (e come!), traduttore italiano di Beckett. Ora anche il cinema inizia ad occuparsi di Godot, e di questo esperimento socio-culturale americano che sia pure con due decenni di ritardo sta facendo parlare di sé anche al di qua dell’oceano, in Europa. Ma prima ancora del cinema, ad occuparsene da noi è il Ministero della Giustizia svedese.

In Svezia.

“Prisonniers de Beckett” di Mishka Saal.

Nel 1980, la direzione del carcere di massima sicurezza di Kumla, il più grande della Svezia, paese da sempre particolarmente sensibile a questi temi, incarica un attore di condurre uno dei progetti di qualificazione culturale e recupero dei detenuti attraverso il teatro. Designato a coordinarlo è un attore, Jan Jönson che decide di ispirarsi al modello Chuchey (“San Quentin Drama Workshop”), coinvolgendo i detenuti, cinque in particolare, in un allestimento di “Aspettando Godot”. Ciò che a San Quintino era nato come per caso, da una recita di attori e dalla folgorazione di un detenuto che ne aveva entusiasmati altri, qui avviene nell’ambito di un progetto politico. Anche Jönson otterrà da Beckett un incontro, una costante attenzione e un importante patronage, utile a portare i detenuti attori in un vero teatro a Goteborg, e di lì in una tournée svedese. “PRISONNIERS DE BECKETT” (2006) è il documentario canadese di Mishka Saal, scomparsa nel 2017, che rievoca con i suoi protagonisti questo anno di laboratorio teatrale svedese. Spicca, per eccentricità e prestigio, la partecipazione al progetto di Bob Dylan, autore delle musiche.

 

“Un trionphe” (“Un anno con Godot” di Emmanuel Courcol.

L’arte della commedia.

Dal documentario (“Prisonniers de Beckett”) alla commedia (”Un trionphe”) corrono 15 anni, ed è la svolta. L’esperienza teatrale diventa oggetto di elaborazione simpatetica. Siamo sempre in un carcere, ma con attori professionisti e le ragioni profonde di questi sessant’anni di coraggiose azioni teatrali mettono gli stivali delle sette leghe della comunicazione emozionale. Il lavoro culturale diventa emozione, forza trascinante, narrazione pronta a diventare senso comune, linguaggio universale. Gli oltre sessant’anni anni che corrono fra l’esperimento di San Quintino e l’uscita in Francia di “Un trionphe” diventano due (nonostante la pandemia) nel passaggio delle Alpi fra la commedia francese (in Italia su SKI) e il bellissimo remake italiano. Un’esperienza sociologica e culturale confinata per più di mezzo secolo nell’ambito di uno spazio protetto, quello del dibattito scientifico allargato a un certo numero di platee teatrali, si appresta a diventare in un lampo patrimonio ideale diffuso. Non sono più esperienze catacombali, radicalismo sociologico, “gauche caviar”. È l’arte della commedia (Eduardo): spostare l’obiettivo: dalla prostituta a chi la frequenta, dal mafioso a chi lo muove o ne è mosso, dal mercato nero alle sue cause, dal palco alla platea. A proposito di palco e di platea: ci sarebbe stato “Aspettando Godot” se non ci fosse stato, prima, “Sei personaggi in cerca d’autore”? Probabilmente no. È la commedia, bellezza, e non ci puoi far niente. Un triomphe” (Un anno con Godot”   diretto da Emmanuel Courcol, esce in Francia nel 2020 e basa la sua sceneggiatura sulla storia di Jan Jönson. “Grazie, ragazzi” (2023), ne traduce e propaga in Italia il racconto. Il discorso finale di Antonio (Albanese), di questo grande comico e grande attore, mai così bravo, spalanca porte, finestre e cuori davanti a cui la comunicazione specialistica fra sociologi e operatori culturali si fermava.

VOTA ANTONIO!

Siamo partiti da qui, e qui arriviamo. “Grazie, ragazzi”, di Riccardo Milani, con Antonio Albanese (il conduttore del laboratorio), Vinicio Marchioni (il boss del carcere), Fabrizio Bentivoglio (il direttore del teatro), Sonia Bergamasco (la direttrice del penitenziario) e tutti gli altri è un film da vedere, non da raccontare. (Come “La stranezza”, di Roberto Andò: accennavo ai “Sei personaggi” pirandelliani e alla commedia “scalza”. Pronto.) Antonio è un attore di teatro disoccupato, un po’ per la pandemia un po’ per le vicende del mestiere. Campa facendo il doppiaggio dei film porno, specialista in rantoli, gemiti e lubrichi ansiti. Come lui non c’è nessuno (lo chiamano anche al telefono, per una prestazione estemporanea: servono due minuti). Abita a Ciampino, fra la ferrovia e l’aeroporto. La moglie se n’è andata, la figlia è ingegnere in un parco eolico in Canada (fra treni, aerei, pale eoliche, cancelli del carcere: i rumori sono importanti). Un vecchio amico e collega un po’ trombonesco (un po’ molto) con cui aveva esordito e che ha fatto carriera in un grande teatro del centro (è il Teatro Ghione di via delle Fornaci ribattezzato Teatro Bellosguardo) gli propone un progetto di poche ore presso un carcere (un po’ la casa circondariale di Velletri, un po’ Rebibbia), poche ore di laboratorio teatrale. Una foto degli esordi con l’amico trombone in “Aspettando Godot” gli suggerirà il tema, vista anche la scarsa partecipazione al corso (quattro detenuti fanculeggianti, più l’addetto rumeno alle pulizie). Strapperà ora su ora, con immenso orgoglio, spazi sempre maggiori di tempo e luogo per il suo laboratorio alla direttrice della casa circondariale. (Sonia Bergamasco in una di quelle sue parti sempre un po’ scostanti), e all’amico l’uso e le locandine del grande teatro per una rappresentazione conclusiva con spettatori veri. A cui ne seguiranno altre. Con un bellissimo finale, per nulla gratulatorio. Da amare.

“Grazie ragazzi”. Da sinistra: Andrea Latanzi, Giorgio Montanini, Giacomo Ferrara, Antonio Albanese, Vinicio Marchioni, Bogdan Iordachiolu.