Siamo nati al cinema quando in sala si entrava a qualunque ora. I tamburini sui giornali dicevano: “Apertura ore 15. Ultimo spettacolo 22,30”. Tutto qui. Potevi entrare in qualunque momento, vedere quel che mancava alla fine, poi quel che avevi perso. O rivedere tutto. Potevi entrare alle 15 e uscire a mezzanotte. Il cinema era il ventre della balena, in cui Geppetto, non avendo niente da limare, smazzare o su cui piantar chiodi, stava al tavolino con la candela nella bottiglia, come nelle illustrazioni di Chiostri o Mazzanti, a scrivere lettere a Pinocchio, molto prima dello Zecchino d’Oro.

Non era detto neanche che ci si andasse per il film, al cinema.

Un cinemino forse fatto apposta
Due film in una volta cento lire
Ci siamo andati insieme ad ogni festa
Seduti in fondo là senza guardare

(Giorgio Gaber: “Porta Romana”)

“Nitrato d’argento” di Marco Ferreri

Non parliamo poi del Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, che pareva l’isola di Giava dell’avanspettacolo: quella dove “si mangia, si beve e si c.”. In “Nitrato d’argento”, il film in cui Marco Ferreri celebrava, un anno prima di andarsene, il cinema in pellicola, il gestore di un’antica sala, prima di abbassare la saracinesca, organizza un ultimo spettacolo per tutti coloro che su quelle poltroncine sono stati concepiti. Lo stravagante invitonon cadrà nel vuoto: fra aventi titolo e imbucati, la sala si riempie per un’estrema, festosa celebrazione.

Si fumava, al cinema. C’erano cinema col tetto apribile, come lo  “Splendor” di Ettore Scola: chiusi d’inverno, arene d’estate. Se non pioveva, durante l’intervallo si apriva il tetto e un’inquietante fumana saliva al cielo. Vista da fuori c’era da spaventarsi, ma si liberava l’aria per il secondo tempo.  Fumavano tutti, allora, e i cinema erano pieni: adesso non si fuma e sono vuoti, anche se non certo per quello. Noi “boomers” – ancora qui a rompere le palle a settant’anni – nascevamo a grappoli da madri che fumavano anche il narghilé, sospendevano (non sempre, non del tutto) durante la gravidanza e riprendevano dopo come l’amico treno del ragazzo della via Gluck (uà uà). Dei fumatori di allora, quasi nessuno lo è più. Io, che non lo sono mai stato intensamente, da decenni lo sono ormai in misura simbolica: i due pacchetti al giorno cantati da Francesco Guccini in “Ho ancora la forza” – “dose” a cui non mi sono mai nemmeno avvicinato – è capace che mi durino un mese. Ma ci tengo come a una forma di profilassi caratteriale: non diventare un ex. Sono terribili gli ex, sono come gli spretati. Ne ho visti chiudere la mamma in terrazza a Natale, col pellicciotto, a fumare la sua sigaretta. Da giovani le pippavano anche le foglie dei gerani, adesso vorrebbero vietare il fumo (tabacco, of course) anche nei parchi, all’interno del raccordo anulare, a meno di trenta metri da terra, se c’è un bambino all’orizzonte.

Empire of light

Al cinema – come nel bellissimo “Empire of light” di cui mi accingo a parlare, appena finisco di scrivere scemenze – oltre alla cassiera, c’erano la maschera, quello che strappava i biglietti   (uguali per tutti i cinema e gli spettacoli) quello che passava con i gelati e gli snack (che non si chiamavano così) e naturalmente il proiezionista, con le pizze da cambiare ogni quarto d’ora. Adesso se arrivi dopo dieci minuti non ti fanno entrare, se ti fanno entrare ti muovi come un cieco senza cane e alla fine esci da una porta diversa da quella da cui sei entrato, ovviamente senza rivedere l’inizio del film. L’albagìa dei cinefili ci apprese che i film vanno visti dall’inizio alla fine (verissimo), e che “non si interrompe un’emozione” neanche fra primo e secondo tempo (vabbè). Quelli che viaggiavano ci fecero sapere che l’intervallo aveva un’unica funzione, squallidamente filistea: quella di vendere gelati e bruscolini (e noi che invece pensavamo…). La SIAE e le norme fiscali imposero il principio “un biglietto-una proiezione”. La necessità sopravvenuta di implementare la giornata proiettando più film nella stessa sala ha fatto il resto. Tutto giusto. Adesso sul mio biglietto, scansionato digitalmente, sono indicati il nome del cinema, il numero della sala, la data, il titolo del film, l’ora d’ingresso e il prezzo pagato (intero o ridotto). Manca l’impronta digitale, per ora. Sarà vero che ne guadagnano la corresponsione dei diritti d’autore e la lotta all’evasione? Mah. Tiremm innanz.

UNA STORIA COME UN’ALTRA, PERO’ BELLA

 I miei piedi sono a Moorgate, e il mio cuore
Sotto i miei piedi. Dopo il fatto
Egli pianse. Promise di cambiar registro. (…)

Sulle sabbie di Margate.
Non posso riconnettere
Nulla a nulla. (…)

(“La terra desolata“, T.S.Eliot, trad. Mario Praz,)

Ottanta km navigabili separano il sobborgo londinese di Moorgate dalla quasi omonima Margate, rinomata stazione balneare ottocentesca alla foce del Tamigi. Cara a William Turner e a T. S. Eliot – che qui compose “La terra desolata” – è la città di Dreamland, il primo parco di divertimenti d’Europa. Il suo ottovolante in legno, la “Scenic Railway” (1920), è considerato monumento nazionale. Lindsay Anderson vi girò uno dei primissimi cortometraggi del free cinema, “O Dreamland”  (1953), 12 minuti che sono nella storia del cinema: la domenica della classe operaia londinese fra le attrazioni di questa storica Mirabilandia.

 

Margate, Kent

1980.Battono le ultime ore e a Margate, come in tutta l’Inghilterra, l’aria non è più quella dei tempi migliori. “Dreamland”, ancora in salute, ma sta per essere venduta a una compagnia olandese, quella dei fratelli Bembom, che la gestirà pe dieci anni con altro nome. I guai veri arriveranno dopo. Come la città, anche l’Empire, il grande cinema sulla costa, è in declino. Multisala in anticipo sui tempi, negli ultimi anni ne ha chiuse tre su cinque. L’ultima in alto, “la piccionaia“, lo è ormai in senso letterale. Dai vetri rotti che danno sul grande terrazzo, alto sul mare, entra ed esce il popolo alato che la abita (avrà un ruolo importante nel film). Ma quella principale, al mezzanino, mirabile per legni, e velluti, con il sipario come a teatro, ostenta la nobiltà di tratto di chi è stato grande. Tempio di una religione con sempre meno fedeli, in un’Inghilterra in crisi sociale profonda, percorsa da un razzismo non proprio strisciante e da bande di skinhead. Faro sul Mare del Nord e prima sala della contea, l’Empire ha appena vinto la gara per assicurarsi la prima di “Momenti di gloria” (vincerà molti Oscar) alla presenza delle autorità politiche e culturali. Anche Paul Mc Cartney ha assicurato che ci sarà.

Mr Ellis e Mrs Small.

Olivia Colman e Colin Firth

Direttore dell’Empire è Mr Ellis (Colin Firth), signorile e squallido. Direttrice di sala Hilary Small (Olivia Colman, strepitosa). Guidano una piccola ciurma composta da tre ragazzi e un proiezionista che è la memoria del cinema. Come la “figlia del Tamigi” di Eliot, anche Hilary ha il cuore sotto le scarpe. Racconta di qualcuno che non pianse dopo “il fatto” e neanche promise di “cambiare registro“. Quel qualcuno era il padre, e la madre era peggio di lui. Una sindrome bipolare, curata con il litio, le procura uno stato di guardinga normalità, rotta da momenti di irritabilità che la costringono ogni tanto a brevi ricoveri in clinica. Ha cinquant’anni e una relazione umiliante con il capo. Se vogliamo chiamarla “relazione“: ogni tanto lui la chiama in ufficio e lei non dice di no. Una relazione “a chiamata”. Nel dancing del cinema ogni tanto si offre di far ballare gli anziani senza compagnia. Vedi alla voce “subire”.  L’imprevisto capace di risollevare la dignità sepolta di Hilary ha il nome di Steven (Michael Ward), l’ultimo assunto, il giovane afroinglese  subentrato a un collega restio a presentarsi al lavoro. Ogni sera un pugno di perdigiorno e naziskin lo attende sul percorso ufficio-casa, cercando il minimo pretesto per massacrarlo di botte. E lui dritto, senza fiatare. La zona è pattugliata, ma c’è poco da fare. Cinquant’anni lei, venti lui, Hilary e Steven sono i protagonisti di un film stupendo, “Empire of light”, di Sam Mendes, candidato agli Oscar per un solo premio (quello per la fotografia, il mago Deakins) e che non ha vinto neanche quello. Ma è in ottima compagnia: Spielberg (“The Fabelmans”), Mc Donagh (“Gli spiriti dell’isola”), Chazelle (“Babylon”), Lurman (“Elvis”), anche loro, come Mendes, rimasti a zero nonostante le tante nominations.

Riferimenti

Empire of light” ha per protagonista un cinema. Come “Nuovo Cinema Paradiso”, come “Splendor” di Scola, come “L’ultimo spettacolo” di Bogdanovich, come tanti altri. Da ognuno prende qualcosa, senza assomigliare a nessuno. Forse un po’ a “Splendor”, subliminale evocazione, non solo nel nome, di un altro cinema, il “Fulgor” dei Vitelloni e di Amarcord, tornato a splendere cinque anni fa a Rimini, per il centenario di Fellini. Poco prima che Mendes, con i suoi architetti e scenografi, facesse risplendere il gioiello Art Deco di Dreamland.

“La paura mangia l’anima” di Rainer Werner Fassbinder

“Empire of light” mette in scena una relazione “dispari” per età. Ma non è una commedia né un melodramma alla “Senso”.  E neanche un dramma dell’esclusione sociale, come lo straordinario “La paura mangia l’anima” di Fassbinder, da cui pure prende qualcosa di essenziale. Steven aspetta che si apra una “finestra” per entrare all’Università (architettura) e Hilary è la direttrice di un cinema. Ha ottimi gusti musicali (che sono una delle bellezze del film) e poetici.

Magritte

“L’empire des lumières”, René Magritte

Empire of light” accumula citazioni e riferimenti, come la cabina del proiezionista tappezzata di locandine, che si traducono in luce, parole e situazioni. “Empire” è il nome del cinema, ma “Empire of light” è il titolo di tre quadri di Magritte, realizzati negli anni dal maestro belga del surrealismo. Quadri in cui l’illuminazione notturna di una villa fra gli alberi contrasta con la luce diurna del cielo. In basso, la notte dell’inconscio con il suo fascino inquieto, la luce del lampione e le finestre illuminate; in alto la luce azzurra e diurna del cielo a pecorelle. Non è solo un’indicazione di luce per il grande Roger Deakins.  E’ il cuore sotto le scarpe di Hilary.

Hilary cita volentieri poeti e poesie (Auden, Tennyson, Larkin), ma queste citazioni – che di solito stonano e qui no – sono sostanza del film. Il nume tutelare di Margate, Thomas Eliot, vi appare nella maniera più bizzarra, da un cruciverba. “Sei lettere: la prima parola della Terra Desolata”, chiede qualcuno. E Hilary: “Aprile”. E’ un riferimento temporale (siamo a un mese dalla storica anteprima inglese di “Momenti di gloria” del 15 maggio 1981), ma non solo. “Aprile è il più crudele dei mesi” perché genera (“lillà dalla morta terra”), mescola (“ricordo e desiderio”), stimola (“le sopite radici con la pioggia primaverile”). “L’inverno” (il litio) “ci tenne caldi coprendo / la terra di neve obliosa, nutrendo / grama vita con tuberi secchi”). E’ il canto di Hilary. Il canto, non la canzone: quella è It’s alright, Ma (I’m only bleeding)” di Bob Dylan (Tutto a posto, sto solo sanguinando). Il breve incontro di Hilary e Steven, più intenso e meno breve di quello di Noel Coward, è il lillà che prende il posto dei tuberi secchi. Morto è l’anno passato, sembra dire, e s’incomincia di nuovo e daccapo ancora. Ma il cuore dell’albero nasconde il numero crescente degli anelli. Sono le parole di un altro poeta inglese, Philip Larkin,  a chiudere il film.

Castelli di rabbia

Si rischia di far la parte dei fanatici, in mancanza di prove certe, ad ipotizzare riferimenti ad uno scrittore italiano contemporaneo in un grande film inglese. Anche se Alessandro Baricco, tradotto un po’ in tutte le lingue, è fra i nostri scrittori più conosciuti oltre confine, in particolare nel mondo di lingua inglese, di cui è un buon conoscitore e che è un riferimento costante nelle sue opere. Si aggiunga che scrittura e formazione in lui hanno un’evidente e persino teorizzata matrice cinematografica. Allora perché mi sembra così strano davanti a una sequenza centrale del film, come quella del castello di sabbia che diventa castello di rabbia, pensare a un omaggio esplicito, a un debito riconoscibile? Possibile che quel primo romanzo dello scrittore torinese, del resto uno dei suoi migliori, fosse presente a chi l’ha immaginata e scritta? Per me sì. Per me lo era. D’altronde non è mica una fantasia così corrente per due adulti, fra cui una signora di cinquant’anni, quella di mettersi a fare un castello di sabbia con secchiello e paletta. In aprile.

Olivia Colman e Toby Jones (il proiezionista)

A un certo punto, verso la fine del film, un lampo attraversa la mente di Hilary. Lavora in un cinema da una vita, eppure mai, neanche una volta, è entrata in quella sala a luci spente. E’ ora di farlo. Adesso, fuori orario.  Prende il proiezionista, nella cui cabina non era mai entrata, e gli dice: “Proiettami un film. Uno qualunque, quello che vuoi”. E lui mette su la prima pizza di “Oltre il giardino”, l’ultima interpretazione di Peter Sellers. E lì, sola, in mezzo alla sala, sotto quel fascio di luce, Hilary capisce tutto. Non tanto che “La vita è uno stato mentale”, una di quelle frasi oscuramente suggestive del giardiniere Chance che chi le capisce è bravo. Ma capisce che anche il cinema “è una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c’è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi, e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po’, l’hai fregato.». Vale per le storie che inventi tu, per quelle che leggi e, a occhi aperti, per quelle che prendono vita da quel fascio di luce. Magari l’avesse capito prima, quando aveva davvero lo schifo addosso. Ma è ancora in tempo. (Ah, questo è Baricco sul serio, “Castelli di rabbia”. Mendes non c’entra. O forse sì, vai a sapere.)

Olivia Colman e Michael Ward