Bologna, 27 giugno 2023.

Tullio Pericoli Goffredo Fofi

Arriva, nel caldo di Bologna, con il suo bastone da ottantaseienne, scalpitando sui suoi sandali. L’anno scorso era qui a presentare il suo ultimo libro, “Son nato scemo e morirò cretino”, da una filastrocca di Nino Taranto: diario antologico di cinquant’anni di vita e di penna, curato da Emiliano Morreale. Diario degli errori, come lo intendeva Flaiano, di un italiano molto poco in linea con quello incarnato da Alberto Sordi, a cui peraltro ha dedicato un bel libro. Quest’anno Goffredo Fofi è atteso alla presentazione di due film, uno che lo riguarda (“Cortile Cascino” di Michael Roemer e Robert Young) e uno molto amato (“L’arpa birmana” di Kon Ichikawa). Dovrà (dovremo) purtroppo rinunciare alla seconda: un’ora di pioggia improvvisa, caduta con dispettosa precisione, manderà a monte la proiezione serale in Piazza Maggiore del canto pacifista di Ichikawa, dirottato in fretta e furia, senza preamboli, in tre sale del centro. Peccato. La sua presentazione ci avrebbe introdotto nel fuoco delle polemiche in cui si trovò coinvolto quel grande film, non premiato a Venezia per l’opposizione del giurato Visconti (la giuria preferì addirittura non assegnare il Leone d’oro) e battuto da “La strada” di Fellini agli Oscar. Nelle battaglie di quegli anni fra il “partito” di Visconti (PCI – Cinema Nuovo) e quello di Fellini (l’equivoco del Fellini “cattolico”, aggettivo che in ambito culturale, più ancora che politico, era quasi un insulto), quando il pacifismo era un “ismo” sospetto tanto a destra che a sinistra e a difendere “L’arpa birmana” era uno dei punti di riferimento di Fofi, il filosofo Aldo Capitini, uno dei due “Gandhi italiani” di quel tempo. L’altro era Danilo Dolci.

Storia di un italiano.

Goffredo Fofi e Franco Maresco

Eugubino, maestro elementare di famiglia proletaria (seconda elementare la madre, seconda e due trimestri della terza il padre: vinceva lui il certame familiare), Goffredo Fofi è uno degli ultimi grandi narratori dell’Italia del dopoguerra, nel senso in cui Vittorio De Sica lo era secondo Pavese. Un’Italia percorsa, vissuta e raccontata con fervore critico e passione politica, da Torino alla Sicilia – addirittura dalla Francia, dove i suoi erano emigrati – senza scrivere un racconto, tantomeno un romanzo, ma con le armi della critica, cinematografica e letteraria. Fofi è l’incarnazione di un’utopia, quella della comprimibilità del tempo: dalla finestra del suo paese, con l’Italia nel cuore e una curiosità divorante, ha visto tutti i film, letto tutti i libri, percorso in lungo e in largo il mondo del cinema, anche e soprattutto nei suoi angoli meno esposti, in una vita ricchissima di mestieri – non tutti intellettuali – e attività politiche e sociali, di tutto ciò scrivendo, correggendo e riscrivendo per migliaia di pagine. Sono cinquant’anni che lo leggiamo, riconoscenti per la passione con cui ci ha insegnato ad amare film bellissimi; imbufaliti per la furia polemica con cui ne faceva a pezzi altri che in molti casi (è questo il bello) sarebbero piaciuti anche a lui, magari a distanza di anni. O di mesi, come nel citatissimo caso di Woody Allen, passato da “insopportabile coglione” a stimato maestro nel breve volgere di un film, “Io e Annie”. Un film capace da solo di indurre Goffredo il terribile a rovesciare, più che rivedere, il proprio giudizio sull’autore. Tempi più lunghi per la revisione avrebbero richiesto “Signore e signori” di Pietro Germi, passato da “merda reazionaria” (quando vinse la Palma d’oro a Cannes) a capolavoro assoluto parlandone con Monicelli (“Col cinema non si scherza”); o Ettore Scola, accusato di “volgare fascismo e razzismo antipopolare” per “Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca” e promosso anche lui, col tempo, a una considerazione molto maggiore.

Franca Faldini e Totò

Ma tutto questo fa parte della vita che abbiamo vissuto, in cui la sopravvalutazione di qualcosa o qualcuno appariva più esecrabile del suo contrario: vero e proprio delitto di leso “rigore” politico o teorico. Anni dopo, la sua “Avventurosa storia del cinema italiano” – scritta con Franca Faldini, la vedova di Totò – avrebbe mostrato grande amore per quel cinema oggetto per tanti anni dei suoi strali; onorato nella sua essenza popolare (non solo Totò), come nella ricerca artistica di una misura più giusta nel racconto del proprio paese. Senza rinunciare a quelle idiosincrasie che sono un marchio di fabbrica e senza le quali ci sentiremmo perduti. Oggi è una bellezza ascoltarlo quando parla per cenni della sua bella vita, delle riviste, di quel libro sull’immigrazione meridionale a Torino rifiutato da Einaudi e pubblicato anni dopo da Feltrinelli. La sua presentazione di “Cortile Cascino” è il miglior collegamento possibile tra l’opera e i giorni. Vera e propria parte integrante del film.

Un anno a Palermo.

Cortile Cascino non c’è più. Era il quartiere più miserabile di Palermo, di una miseria tanto assoluta e irredimibile da convincere anche quel potere che lo aveva lasciato sopravvivere fino alla soglia dei ‘60 ad abbatterlo, trovando una sistemazione un po’ meno infame alle centinaia di derelitti, per lo più (molto) pregiudicati, che lo abitavano. Avrebbe forse resistito anche ai “meravigliosi anni ’60”, se nel ‘61 non fossero arrivati a Palermo, con le loro cineprese, due americani, Michael Roemer e Robert Young, un regista e un fotografo, da tempo attivi in Italia fra la Torino dell’immigrazione operaia e il mezzogiorno. Avevano sentito parlare di questo sciagurato quartiere e, per quanto il documentario che si apprestavano a girare fosse candidato ad una lunga giacenza nei depositi della Rai, non si poteva più far finta di niente.

A Gubbio dopo la scuola un Goffredo Fofi adolescente aiuta il padre a riparare motociclette. Ma ad ingoiare la sua paghetta è un’altra scuola: il cinema. Un film al giorno, ogni giorno che Dio manda in terra, per anni. Nel 1955, a 18 anni, legge su “Cinema nuovo” un articolo di Enzo Sellerio (il fondatore della casa editrice) su Danilo Dolci, questo Gandhi italiano (così lo chiamano) che svolge il suo apostolato sociale laico e non violento fra i miseri di Partinico. A due passi da Montelepre, regno di Salvatore Giuliano, morto cinque anni prima. A Palermo, poco più in là, c’è Cortile Cascino, il quartiere dove Dolci ha fissato un suo presidio e anche se diciotto anni non sono ancora la maggiore età (quella è a 21), il giovane maestro decide che vuole andare là. Ne cercano uno per quella scuola che non c’è. Gli allievi adulti sono in buona parte i membri della banda Giuliano, fra una carcerazione e l’altra; poi ci sono i loro figli. Non le mogli (va da sé). Il quartiere ha una sola fontana per molte centinaia di persone e niente luce. Bisogna fare la fila dalle 5 di mattina per quel tanto d’acqua che può servire a lavarsi, bere, cucinare. Si muore, letteralmente, di fame. Sotto gli occhi del giovane maestro bambini grattano i muri della baracca per mangiare la calce: un medico gli spiegherà che è pur sempre calcio e quel che non ammazza, oltre ad ingrassare, in questo caso rafforza le ossa. Al centro del quartiere un’enorme buca raccoglie le deiezioni della comunità. Gli uomini vi accedono direttamente; le donne vi versano il contenuto degli orinali al mattino.

Ogni sera prima di dormire leggevo un pezzetto del “Circolo Pickwick” e mi trasportava in un altro pianeta. La diversità dalle esperienze e dalle storie che vivevo e vedevo era tale (abissale) da aiutarmi a non precipitare nella logica del cortile (anche se non è bastato Dickens a evitare che ciò succedesse!)” (“Son nato scemo e morirò cretino”). Ci sono due turni di insegnamento a Cortile Cascino: mattina e pomeriggio. Un giorno Fofi distribuisce un po’ di biscotti fra i bimbi del primo turno, le mamme di quelli del secondo lo accusano di preferire i figli delle altre. La lite collettiva è furiosa e violenta. Esasperato, il giovane maestro perde la pazienza e fa quello che ha visto fare quotidianamente ai loro mariti (non necessariamente per sedare i femminili tumulti): ne prende una per i capelli e le sbatte la faccia contro un tavolo. Alla vista del sangue le donne ammutoliscono di colpo nel rispetto per chi fa paura. È il linguaggio che si parla a casa loro, ma non è il suo. Precipitato “nella logica del cortile”, la notte stessa scrive a chi gli aveva offerto di collaborare a un nascente progetto Olivetti e accetta. Il giorno dopo parte per Roma.

Cortile Cascino la fontana

Il documento ritrovato.

Cortile Cascino”, di Michael Roemer e Robert Young, mai davvero visto da allora, è un angolo di storia d’Italia che aspettava di essere raccontato. C’è il luogo terribile raccontato da Fofi, mitigato da un approccio misericordioso e liricizzante. La scuola documentaristica è quella di Lionel Rogosin  (“New American Cinema”) e di Chris Marker: molti sono i primi piani, “la più poetica delle inquadrature”. La ferrovia che taglia il Cortile può suggerire qualche analogia con il Monte Ciocci di “Brutti, sporchi e cattivi”, molti anni dopo, ma quella era fiction. C’è al centro la storia di una famiglia: le tre figlie, alla terza delle quali, Beatrice, la madre affida tutte le speranze di riscatto da quella vita miserrima, tenuta come un uovo nella paglia. Espressione pietosa e sacrilega, visto il contesto. Ma quella che porta avanti la famiglia è Anna, la Mena Malavoglia dei miseri. I pasti sul lettone, il marito nullafacente sempre il primo ad essere servito, poi i figli e quel che avanza a lei. Gli uomini al biliardo: i pochi soldi (non si capisce come li facciano, cioè si capisce benissimo) vanno lì. I giochi e le violenze dei bambini, la miseria, le morti. Ma sempre osservati da uno sguardo, nobilissimo, che si rivelerà più adeguato e calzante nei venti incantevoli minuti del successivo (qui al festival) “Faces of Israel”. Il sogno socialista della prima Israele, vera e propria nascita di una nazione. Con le sue facce bellissime di giovani, le donne, i vecchi con le loro barbe quasi di stoppa, i soldati, i balli, la scuola del kibbutz con la divertente lezione sui polli: ogni allievo con la sua gallina in mano tenuta con la sinistra e a testa in giù ad osservare sotto la direzione del maestro le diverse funzioni del culo e dove si gonfia quando fanno l’uovo. Quando anni dopo Fofi, entrato in confidenza con Luis Bunuel, gli racconterà di “Cortile Cascino” dicendo “ho conosciuto un posto peggiore di quel quartiere di “Città del Messico del tuo film (“I figli della violenza”), molto peggiore” e Bunuel risponderà incredulo “non è possibile”. Ecco, vedendo il film, il grande aragonese avrebbe forse potuto dire: “Vedi, non è proprio così”, ma la differenza è nell’occhio. Nella diversa forza delle due denunce. Quella più desichiana di Roemer e Young e quella, asperrima, del “cane andaluso”.

Lo specchio rotto.

Michael Roemer

Due citazioni ha avuto “Cortile Cascino” in questo mezzo secolo: la prima di Ciprì e Maresco – molto cari, giustamente, a Fofi – dal loro spettacolo teatrale; “Viva Palermo e Santa Rosalia”: due che avrebbero avuto l’occhio “cinico” e la sensibilità giusta, diciamo alla Bunuel, o alla Fuller (il loro caro Samuel Fuller) per girare un documentario del genere se solo fossero nati vent’anni prima. Pochi minuti resi struggenti dalla tromba di Enrico Rava e dal piano di Salvatore Bonafede sulle note di “The wind” di Chet Baker; straordinario blob di immagini del documentario americano (https://www.youtube.com/watch?v=IutIeAeSPFQ) . Ma la cosa migliore l’avrebbe fatta, incredibilmente, la Rai, realizzando nel 1991 “Cortile Cascino II”, un ottimo “trent’anni dopo”, con gli stessi protagonisti del film di Roemer e Young (ampiamente antologizzato) prendendo spunto dalla proiezione di questo a Palazzo delle Aquile su idea di Andy Young (figlio di Robert) tornato trent’anni dopo, con la moglie e le pizze del film, sui luoghi dove era stato sulle spalle del padre. (https://www.youtube.com/watch?v=-3ZOJeQwPJcA). A condurre il racconto è Anna, la Mena di quei “vinti” senza scendere in campo (più sventurato, purtroppo, il destino di Beatrice, la designata al riscatto).

Robert Young

È riuscita a liberarsi del marito, di cui tanta paura aveva, e a separarsi. È nonna ormai e ci guida attraverso quell’orrore retrospettivo con lo spirito di chi, nella povertà attuale, sente il soffio di un riscatto inimmaginabile allora. Non riconciliata, certo, ma liberata sì. Un “trent’anni dopo” che recupera gran parte del documentario di Roemer e Young oggi restaurato e proposto a Bologna, integrandolo e raccontandolo con le parole di Anna. Uscita da quell’inferno senza un’ombra della fiducia nel futuro delle “Faces of Israel” che fondarono una nazione, ma con un senso di libertà che mai avrebbe pensato allora di poter raggiungere, Anna ci guida con la memoria tra le immagini di quel lontano film nel lager che Goffredo Fofi ha oggi evocato per noi integrandole con la memoria di quell’anno a Cortile Cascino. Un anno tanto diverso da quello a Pietralata di Albino Bernardini, tradotto da Vittorio De Seta e Bruno Cirino nel bellissimo “Diario di un maestro”, da apparire inconfrontabile, pur nella contemporaneità.

Danilo Dolci

E invece da vedere, ricostruito nelle sue componenti (racconto orale, immagini documentarie, memoria scritta – le pagine di diario di “Son nato scemo e morirò cretino” – e memoria televisiva), come parte di un racconto di grandezza e miseria estreme. Frammenti di uno specchio rotto. Schegge di una storia mai diventata davvero comune.

Cortile Cascino