OPPENHEIMER

Se l’avete già visto lo sapete: “Oppenheimer” non è un film noioso, nonostante il prevalere della parola sull’immagine. Non lasciatevi intimorire dalla durata, se invece non l’avete visto. “Oppenheimer” non è neanche un film faticoso, nonostante la titanica ambizione che lo muove e la quantità di informazioni che elabora a ritmo incalzante, di connessioni e sinapsi che sollecita in ogni direzione, anche in virtù di un montaggio che tiene desta l’attenzione muovendosi avanti e indietro nel tempo, virtuosisticamente. Nonostante qualche stranezza di troppo e – questo sì – una delle colonne sonore più indebitamente frastornanti che si ricordino. Se siete appassionati delle prime file, fate un’eccezione e arretrate verso il centro sala, perché le ricorrenti esplosioni atomiche del film qualcosa di atomico ce l’hanno, anche se solo nel suono.

Oppenheimer” è l’idea platonica della “molteplicità” (cioè dell’enciclopedismo), che fu una delle ”Sei proposte per il nuovo millennio”  contenute nelle “Lezioni Americane” di Calvino.  È molteplice tutto ciò che in arte ti stimola a prendere un libro dalla biblioteca, rimettere un disco sul lettore, frugare tra i fumetti; a stabilire una connessione fra saperi. Molteplice è ciò che sollecita la discussione e la accoglie come parte di sé: il dibattito su “Oppenheimer”, in ogni sua forma e direzione, arricchisce e integra il film.

Oppenheimer” è un grande film moderno, un colossal d’autore, genere che va incontro di solito a scacchi commerciali epici e che a questo giro si sta rivelando un trionfo. Ti apre un angolo di mondo di cui avevi sentito parlare (parlo proprio di lui, Oppenheimer), che era venuta l’ora di conoscere meglio ma che nessuno aveva mai trattato nelle forme di un grande romanzo popolare di storia, politica e scienza come questo. Nelle forme, per la parte centrale, di un processo alla scienza; un processo senza Perry Mason.  “Oppenheimer”, cioè Christopher Nolan, tutto questo lo sa, anche se prova a caricare la pellicola di significati e ambizioni che superano le possibilità di un film. Se volete sapere qualcosa sulla teoria dei quanti e, come noi, non ne capite un tubo, c’è al massimo Piero Angela a cui fare ricorso, non Christopher Nolan o chi per lui. “Oppenheimer” è il mondo intero in un grande spettacolo. E un grande spettacolo ha sempre qualcosa di infantile.

Quando verso la fine, imprevisto e inaspettato come uno sparo, spunta il nome di John Kennedy, e il pubblico intero si erge idealmente come un unico, ciclopico dito medio alzato contro il Gargamella del film beffato dal giovane senatore dal grande e tragico avvenire, proviamo il gusto un po’ canagliesco ma sempre impagabile di sentirci fanciulli con qualcuno che ci ha capiti. Ma perché questa reazione da Nuovo Cinema Paradiso, non sfuma appena fuori, ma anzi si consolida, forte di una sua ragion d’essere non tanto corriva?

 

HAROLD SWERG

Harold Swerg è un piccolo anonimo archivista, il più tranquillo degli uomini. Purtroppo per lui, non il più comune. Harold Swerg, infatti, poteva battere a baseball più lontano di qualunque essere vivente; con un calcio poteva mandare il pallone più lontano di qualsiasi essere vivente, correre più veloce di qualsiasi essere vivente. Poteva. Ma non voleva. Presidenti di società sportive, di organizzazioni olimpiche, di eventi, promoter e ambasciatori erano ai suoi piedi. “Girerai il mondo, sarai ricchissimo! Prestigio, gloria, donne!”  Niente.  “ANDATE VIA!”, diceva.  “Non mi piace il mondo dello sport. Mi piace il mondo degli archivi. Forse, chissà, un giorno sarò archivista capo”, confidava con un sorriso il piccolo ebreo.

Presidenti e organizzatori mandarono una dichiarazione alla stampa. I siti di notizie la riportarono in prima pagina: “HAROLD SWERG NON STA AL GIOCO”. E la gente diceva: “Ma allora un uomo che non sta al gioco è contro il gioco; se è contro il gioco è contro il fair play; se è contro il fair play è contro il nostro sistema di vita! BOOO!” Niente da fare: “Lasciatemi in pace”, rispondeva. E sembrava che sarebbe finita lì.

Fra le tante bellezze che la rivista Linus ha fatto conoscere a noi boomers italiani, da quando nell’aprile del ’65 uscì il suo primo numero, ci sono i fumetti di Jules Feiffer. Feiffer, oggi novantacinquenne, è uno dei giganti del fumetto. Commediografo (“Piccoli omicidi”), sceneggiatore (“Conoscenza carnale”), coautore cinematografico con Resnais (“Voglio tornare a casa”). In Italia, a cura della Milano libri di Giovanni Gandini, uscirono in quegli anni “Piccoli omicidi” (grande il film di Alan Arkin con Elliot Gould) e la “Nixoniana”. Da Bompiani “Passionella” e “Il trapianto del trauma”. E se vi sembra indegno svolgere in parallelo le storie di un grande film odierno su un tema come l’atomica e di un fumetto americano uscito in piena era kennediana (in Italia nel ’68, occhio alle date), sappiate che a curare edizione e traduzione italiana di questi libri fu una coppia come quella formata da Umberto Eco e Cathy Berberian. Due che allora, in Europa e in America, “flirtavano con le Consulte per la pace” (Eco). Uno dei pezzi forti del “Trapianto del trauma” è appunto la storia di Harold Swerg, di cui vedete sopra la prima pagina. Il corsivo, segnalerà anche graficamente le parti Swerg.

Torniamo a “Oppenheimer”.

“Oppenheimer”, ormai lo sanno tutti, è la storia del progetto di sviluppo della prima bomba atomica (progetto Manhattan); della costruzione della città che lo avrebbe ospitato (Los Alamos in New Mexico, in un territorio storicamente appartenuto agli Apaches); degli scienziati che vi collaborarono, ma soprattutto del primo di loro, Julius Robert Oppenheimer, scelto da Roosevelt, sopportato da Truman, processato da Eisenhower, riabilitato da Johnson. Vi assumono un ruolo marginale figure capitali come Fermi (nominato o poco più) o Bohr e quello di Einstein è ridotto a poco più di un cameo, ancorché di alto valore simbolico e narrativo. Ma tutto ruota intorno a lui, J.R.O., alla sua personalità, agli studi che lo avevano portato lì, alle sue simpatie politiche giovanili per il comunismo (più che altro un comunismo per amore, comunista essendo la sua prima fidanzata importante) che, non ostative per Roosevelt, molto lo divennero a posteriori per chi lo avrebbe “processato”, dieci anni dopo, in clima maccartista (non fu un vero processo anche se ne assunse le forme: non c’era in gioco la galera).

Il “processo” a porte chiuse a Oppenheimer (fino ad allora intoccabile eroe nazionale) riguardava il rinnovo allo scienziato di quel NOS (Nulla Osta di Sicurezza) che ogni comune cifratore di ministero o d’ambasciata di un paese NATO possiede come ovvio presupposto della funzione esercitata. Figurarsi uno come lui, il padre della bomba atomica. Non rinnovarglielo equivaleva a considerarlo poco meno di una spia. Non che il progetto Manhattan non fosse risultato effettivamente infestato di spie russe. Una, la più famosa, si chiamava Fuchs e salvò la vita facendo molti nomi che a loro volta ne fecero altri, fra cui quelli degli unici a rifiutarsi di parlare (ammesso che ci fosse ancora qualcuno da denunciare in quell’orgia di delazioni) Erano Julius e Ethel Rosenberg e finirono sulla sedia elettrica. Fu la solita esecuzione bestiale. Più bestiale del solito. L’atomica sovietica si era avvalsa di questo tessuto di rivelazioni (anche se non sarà mai chiaro quanto) per giungere all’obiettivo. Ma non fu solo una questione di presunta responsabilità oggettiva a motivare la decisione del non rinnovo che fu effettivamente presa, l’anno dopo l’esecuzione dei Rosenberg.

Il processo ebbe motivazioni dicibili e altre indicibili. Con scaltrezza drammaturgica, Nolan dà grande rilievo al risentimento verso Oppenheimer di un influente personaggio della politica americana, Lewis Lichtenstein Strauss, divenuto, per nomina di Eisenhower, Presidente della Commissione per l’Energia Atomica degli Stati Uniti e frustrato anni prima nelle sue ambizioni da Oppenheimer, che, poco stimandolo, lo aveva messo in cattiva luce all’interno della Commissione. Ma altro e ben più drammatico era il conflitto che quel processo, non ufficiale e a porte chiuse, esprimeva e che dà spessore e grandezza al film.

Swerg.  

Ma furono indette le Olimpiadi. La Russia aveva qualcuno che a baseball batteva più lontano di tutti; qualcuno che calciava il pallone più lontano di tutti; qualcuno che correva più forte di tutti. Il Dipartimento di Stato convocò una riunione: “Harold Swerg deve partecipare alle Olimpiadi”. Mandarono un messo, che tornò con un messaggio: “No”. I servizi segreti controllarono la sua scheda personale: mai fatto parte di un gruppo politico. Capirono che non era interessato a far parte di qualcosa. Gli mandarono un funzionario del Dipartimento di Stato: “Tutti fanno parte di qualcosa”, gli disse. “Non io”, rispose Swerg. Gli mandarono un gruppo di senatori: “La regola di ogni democrazia è che decide la maggioranza e la maggioranza ha deciso che dovete partecipare alle Olimpiadi. Volete far crollare le basi del sistema?” “No. Voglio esser lasciato in pace.” Entrò in campo il NYT: “HAROLD SWERG MINA IL SISTEMA ALLE BASI”. Il Presidente stesso gli rivolse un appello: “Tu vuoi che noi perdiamo?” Gli chiese. Niente da fare. Gli andarono sotto casa con cartelli: “Swerg sleale”, “Swerg filo russo”.  La stampa russa espresse il suo punto di vista e la Pravda titolò: “SWERG VIGLIACCO BORGHESE”. Era troppo. Swerg usci di casa e in mondovisione dichiarò: “Va bene. Gioco”.  Il paese era elettrizzato: “SWERG GIOCA!”, “SWERG GIOCA”. Ogni partito si attribuiva il merito.

Oppenheimer.

Tutti tendiamo a pensare che le espressioni “bomba atomica”, “bomba H” o “bomba all’idrogeno” dicano la stessa cosa. Non è così. Alla bomba H (o all’idrogeno o termonucleare) si arriverà sette anni dopo Hiroshima. Per impulso di Harry Truman e sotto la direzione di un altro scienziato, Edward Teller. Oppenheimer si chiamò fuori. Per le differenze strutturali fra le due bombe c’è wikipedia. Quanto all’efficacia distruttiva, la più nota fra le prime, fatta esplodere nel ’54 nell’atollo di Bikini (oggi Repubblica delle Isole Marshall, allora controllata dagli americani) fu quantificata in mille volte quella di Hiroshima. Un “giocattolo”, la bomba di Oppenheimer, di cui solo tre esemplari risultano costruiti nella storia: quella del test Trinity – la prova generale – e le due sganciate sul Giappone. Quelle stipate negli odierni arsenali atomici sono tutte termonucleari. E naturalmente più moderne di quella di Bikini.

C’era stato un momento in cui si sarebbe potuto decidere per l’una o l’altra strada: indirizzare la ricerca in un senso piuttosto che nell’altro. Verso l’”atomica” (come si è fatto) o verso l’ordigno termonucleare. Fu Oppenheimer ad orientare la scelta, opponendosi alla seconda via. Per far prima, si disse. Bisognava superare il gap scientifico con la Germania nazista, che all’inizio della guerra appariva non indifferente nella ricerca sull’atomo, anche se gli artefici di questa superiorità tecnologica tedesca erano ebrei e in fuga verso l’Inghilterra o gli Stai Uniti. Si doveva vincere la guerra, non distruggere il mondo. E neanche il Giappone. Le prospettive dello sviluppo termonucleare lo atterrivano. La bomba doveva piegare il Giappone (la guerra in Europa era finita), e consentì di farlo, ma la rete di spie che infestava Los Alamos e il ritardo nei progetti di bomba all’idrogeno consentirono il recupero sovietico e vanificarono quel primato nucleare americano vaneggiato da una società che ci aveva messo molto poco a diventare più antisovietica che antinazista. Del resto la Russia di Stalin non è che non fosse, specularmente, più antiamericana che anti fascista (lo era già prima della guerra). Nel decennio della guerra fredda e nell’America maccartista questo non poteva non portarsi dietro per l’eroe rooseveltiano del progetto Manhattan quasi un sospetto di tradimento. Oppenheimer con le spie non c’entrava nulla ed è puerile pensare che fossero le simpatie comuniste di gioventù a fargli ritardare lo sviluppo del programma nucleare americano favorendo l’inevitabile recupero sovietico. Ma non è sbagliato, probabilmente, pensare che questo recupero non dovesse dispiacergli. Fu probabilmente il primo a capire che il corrusco equilibrio che si preparava era l’unica prospettiva di pace (o di non guerra) offerta all’Europa, nel punto più basso della sua storia.

Swerg.

Incominciarono i giochi. Prima i battitori. Il russo Kopronoff (Eroe di baseball del popolo sovietico) batté a 912 piedi e 6 pollici. Toccò a Swerg: 912 piedi e 6 pollici. Uguale. Poi i calciatori.  Wladimir Brosnokopsski (Eroe del football al merito della Stella Rossa) calciò il pallone a 314 Yarde, 4 piedi e 6 pollici di distanza.  Swerg, senza scomporsi, a 314 Yarde, 4 piedi e 6 pollici. Fra la folla serpeggiò un mormorio di disappunto. Venne il turno dei corridori. L’avversario di Swerg era il formidabile Dimitri Pedalowski (Eroe della corsa veloce al merito del Mausoleo di Lenin). Arrivarono pari. Al millesimo di secondo. Harold Swerg fu chiamato dalla giuria: “Lei non ha dato tutto sé stesso!” “Certo che sì”, rispose Harold indignato. “Allora perché non ha vinto?” “Vincere non vuol dire dare tutto sé stesso. È per pareggiare, che ho dovuto dare tutto me stesso” “Che? Come?” disse la giuria. E Swerg: “Sareste capaci voi di calciare una palla a 310 Yarde di distanza?  Ammazza! È stata una bella impresa. Non credevo proprio di farcela” Uscì in strada trionfante: “Gente! Chi vuole farsi pareggiare un record si faccia avanti!”

Ma nessuno venne. Perché a nessuno interessa pareggiare un record. E così lo lasciarono in pace. Il che era esattamente quello che voleva.

 Vincere non è dare il meglio di sé. È il pareggio che chiede a ciascuno il meglio. Bisogna pareggiare per vivere in pace. Truman che ascolta Oppenheimer come se a parlare fosse un citrullo, sembra un po’ il Presidente che ascolta Swerg spiegargli che perdere è l’aspetto complementare del vincere e che in un gioco si vince e si perde, con i consiglieri intorno che fanno baccano perché non stia a sentirlo. Ma chi gli parla sarà anche il dottor Morte, ma sa che pareggiare, nel mondo che verrà, è l’unica garanzia del vivere in pace.  La vittoria del prepotente accenderà sempre nello sconfitto voglie di rivincita e nel vincitore la tentazione di riprovarci. Per questo ci sono guerre che bisogna vincere, perché ne va della vita e perché è l’unico modo per tornare in pace. Ma la pace si fonda sul pareggio e sull’equilibrio. Anche quello del terrore? Se non c’è di meglio, sì. Si vince per tornare a casa; si pareggia per rimanerci. Da “vigliacco borghese”? Perché no. C’è tanto da fare a casa, in pace col mondo. (Anche di meglio che ordinare schede d’archivio, se vogliamo. Ma qui è questione di gusti.)