Ci hanno già provato, a ‘esternalizzare’ il fastidio dei migranti. E qualche volta ci sono riusciti. Boris Johnson, ad esempio, nel 2022 tentò proprio con l’Albania – e fece flop –; e il suo successore Rishi Sunak ci ha appena riprovato addirittura con il Rwanda – altro flop, con tanto di no timbrato della Corte Suprema britannica  -. L’Albania, per Giorgia Meloni, è il secondo tentativo: ha già cercato di negoziare, insieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ed al premier olandese Mark Rutte, un’intesa tra Ue e Tunisia che, però, non s’è finora concretizzata (e che potrebbe non concretizzarsi mai).

Fece meglio – o peggio, a seconda dei punti di vista – l’Unione europea nel suo insieme: nel 2016, riuscì a ‘esternalizzare’ il problema dei migranti dalla Siria, nel pieno di una doppia guerra, civile e contro l’Isis, affidando la gestione di due milioni di rifugiati nei campi profughi allestiti in Turchia lungo il confine al presidente turco Racep Tayyip Erdogan –prezzo dell’ ‘affitto’: 6 miliardi di euro-.

Immagine messa a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT – https://www.governo.it

Adesso, con l’Albania l’Italia ci prova da sola: il governo di destra, che aveva promesso di bloccare l’immigrazione illegale, fosse pure con i blocchi navali, è alle prese con l’arrivo di troppi migranti – ma chi lo stabilisce che sono troppi?, e comunque sono meno di quelli che arrivano in Germania o in Francia ogni anno -. Impossibilitata a bloccare il flusso, o anche solo a ridurlo, in attesa dell’ormai mitico Piano Mattei che prima o poi sapremo che cos’è, e incapace di gestirlo, Meloni ha l’idea è di parcheggiare un po’ di migranti in Albania. Ovviamente, a pagamento. L’Unione europea guarda con cautela e sospetto all’accordo annunciato il 6 novembre dalla Meloni e dal premier albanese Edy Rama -lei di destra, lui socialista-, per ‘dirottare’ in Albania fino a 36 mila migranti l’anno intercettati dalla Guardia costiera italiana e destinati ai centri d’accoglienza (che tali non sono) italiani.

A prima vista, l’intesa suscita dubbi di costituzionalità e potrebbe pure violare regole europee e internazionali. C’è sospetto, ma anche cautela, da parte della Commissione europea, che tuttora attende di conoscere i dettagli del patto e che dà la sensazione di volersene ‘lavare le mani’, mentre il Consiglio d’Europa boccia il progetto. Luca Barana, ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali, constata che l’accordo lascia “senza risposta alcuni interrogativi giuridici e politici”, non solo etici, ma anche dal punto di vista della sua applicazione.

La levata di scudi dell’opposizione di sinistra può anche essere derubricata a dialettica politica, se si pensa che l’ultimo governo a guida Pd – ministro dell’Interno Marco Minniti – fece intese non meno criticabili dal punto di vista etico con le autorità libiche, persino con dei ‘signori della guerra’ locali, perché frenassero le partenze dei migranti. Rama, criticato in patria dall’opposizione di destra, ironizza: “In Italia, l’accordo è di destra. In Albania, è di sinistra”.

Giubbotti di salvataggio – Foto di Jim Black da Pixabay

Le riserve e le proteste delle organizzazioni umanitarie ed europeiste alimentano, invece, dubbi e remore. Il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, vede nell’intesa “un’ammissione d’incapacità a fare. Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui”. Parlando lunedì 13 novembre ad Assisi all’Assemblea della Cei, Zuppi rileva: “Non sappiamo ancora come sarà realizzata la creazione dei centri in Albania per i richiedenti asilo… Auspichiamo che i loro diritti umani siano rispettati. Riaffermiamo che sui migranti serve un’azione dell’Europa corale, comune e condivisa, dove l’ ‘esternalizzazione’ non può essere la soluzione”. Ma un’azione del genere, da parte dell’Ue, non è alle viste. Ed ecco allora la fuga in avanti (o indietro) dell’Italia. Il Movimento europeo condivide l’allarme che molte sigle per i diritti umani, con in prima fila Amnesty International, hanno lanciato e chiede che l’intesa sia ufficialmente pubblicata, con i suoi allegati applicativi, e che sia sottoposta alla verifica e al voto del Parlamento, oltre che al vaglio dell’Unione.

Pier Virgilio Dastoli, presidente della sezione italiana del Movimento europeo, dice: “Chiediamo alla Commissione europea lo scrupoloso esame del testo nella sua completezza, tenendo conto sia della giurisprudenza delle due Corti europee che del diritto internazionale; e vogliamo che i risultati della verifica siano riferiti ai Parlamenti europeo ed italiano”.

In attesa di farci sapere che aspetto giuridico l’accordo avrà, se patto o protocollo o altro, Meloni lo rivendica come ultimo atto di un “enorme lavoro, soprattutto diplomatico”, fatto in questo anno e senza il quale – la premier ne è sicura – “i numeri degli ingressi sarebbero stati molto più alti”.

Derubricati a “fantasie” i malumori sull’intesa nella maggioranza, forse attribuibili più a gelosie che a dissensi, il governo ‘dribbla’ il confronto con le opposizioni in Parlamento e affronta senza timori l’esame dell’Ue: “Il testo rispetta tutte le norme”, assicura il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che, da ex commissario europeo e presidente del Parlamento europeo, dovrebbe essere attendibile. Per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’intesa è “innovativa”. Il guardasigilli Carlo Nordio auspica che “eventuali pronunce della magistratura non vanifichino la futura operatività”.

Ma la segretaria del Pd Elly Schlein non digerisce il fatto che il Parlamento resti fuori dai giochi: “È inaccettabile… Lo fanno perché sanno che l’intesa viola l’articolo 10 della Costituzione, per il quale l’asilo si chiede sul territorio della Repubblica” – così, invece, la richiesta verrà fatta in Albania -.

Il tema è caldo anche nell’Ue e all’Onu. Esternalizzare la gestione dei migranti è una “politica inefficace e disumana”, sostiene, intervenendo al Parlamento europeo, l’attrice australiana e ambasciatrice dell’Unhcr Cate Blanchett. Una “lezioncina da attrice miliardaria di Hollywood”, minimizzano i ‘meloniani’.

Se Roma tiene le carte coperte, Tirana le mette in tavola e rende noto il testo dell’intesa: l’Italia sarà responsabile di quanto avviene nell’hotspot ‘esternalizzato’; l’Albania garantirà la sicurezza intorno, cioè che il centro d’accoglienza sia di fatto una prigione. Due allegati impegnano Roma a spendere 16,5 milioni di euro nel primo dei cinque anni della durata prevista e a creare un fondo di garanzia.

In attesa di definire i meccanismi per il trasporto dei migranti dal Mediterraneo all’Albania, si sa che nell’hotspot di Shengjin (dove si prevede che i migranti restino al massimo quattro settimane, tempo delle verifiche sul diritto d’asilo), il numero sarà chiuso: tremila posti. Ne arrivano altri solo se si liberano posti. Se la burocrazia italiana funziona come un orologio svizzero, si può arrivare a 36 mila l’anno. “Ma sarebbe una prima volta nella storia”, ironizza ancora Rama, che non s’imbarazza a smentire Meloni. I centri saranno due, dice la premier italiana; no, uno, replica quello albanese.

Tirana non ha dubbi sulla compatibilità dell’accordo con il diritto internazionale. Ma “sta all’Italia – precisa Rama – verificare di essere in linea anche con le regole dell’Ue”. Lui, intanto, incassa, oltre ai soldi, il sostegno di Roma all’adesione di Tirana all’Unione.

Immigrazione e pace, un’Unione europea marginale e gregaria

Unione che, anche sul fronte dell’immigrazione, conferma la sua marginalità di fronte agli Stati, sulle questioni interne, e la sua vocazione gregaria, rispetto agli Stati Uniti, sui grandi problemi internazionali, la ricerca della pace in Ucraina e in Medio Oriente.

La pandemia, ci aveva illuso sul potere dell’Ue. Dopo una fase, condivisa con il Mondo intero, di incertezze e oscillazioni, l’Unione europea aveva risposto in modo sostanzialmente consono alle indicazioni della scienza ed aveva pure avuto il colpo di reni di mettere per la prima volta in comune una fetta di debito, per consentire all’economia di rimettersi in moto dopo il brusco stop, specie nei Paesi più fragili – Italia compresa -.

Poi è venuta la guerra in Ucraina. E l’Unione non ha trovato di meglio che allinearsi alla posizione degli Stati Uniti e, quindi, dell’Alleanza atlantica. Per carità, giusto stare dalla parte degli invasi contro gli invasori. Ma, in 21 mesi di guerra ai loro confini, i 27 potevano pure trovare l’autonomia per un’iniziativa di pace, invece di stare ad osservare, di volta in volta, i tentativi della Turchia o della Cina o di Papa Francesco, nel ruolo di ruota di scorta di tutti gli uomini di buona volontà ma smidollati che aspettano la manna della Provvidenza.

Adesso, la scena si ripete. Nella guerra tra Israele e Hamas, l’Europa non tocca palla; e neppure ci prova. Si contano a iosa le dichiarazioni di vicinanza a Israele e di preoccupazione per l’inasprirsi del conflitto con drammatiche conseguenze sui civili palestinesi, e le bandiere israeliane esposte o proiettate su istituzioni comunitarie o edifici pubblici; e c’è stato l’atto di coraggio (sic!) di chiedere che si faccia luce sul bombardamento dell’ospedale di Gaza. A Strasburgo, il Parlamento europeo invoca una “pausa umanitaria” delle ostilità per permettere l’arrivo di aiuti internazionali a Gaza.

Ma, a parte questi atti declaratori e/o simbolici, nulla, nada, rien, nichts, nothing, per dirla in alcune delle lingue dell’Ue: nisba. I 27 si dividono pure sugli aiuti ai palestinesi: troncarli?, o mantenere quelli umanitari? Linea che passa quando anche Washington condivide l’opportunità di dare viveri e medicinali a una popolazione assediata.

Guerra Israele – Hamas: Ue e pellegrinaggi in ordine sparso

Foto di Amrulqays Maarof da Pixabay

La guerra tra Israele e Hamas e la crisi in Medio Oriente confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che l’Unione europea politica non c’è: è un dato di fatto, un assioma a partire dal dato di fatto arci-noto che, in politica estera, i 27 devono decidere all’unanimità e non possono decidere a maggioranza. E, quindi, basta che un polacco o un ungherese alzi la mano per obiettare e tutto si arena. Assistiamo, così, a pellegrinaggi in Israele in ordine sparso, per ribadire la solidarietà e suggerire, ma solo a mezza voce, la moderazione: il cancelliere tedesco Helmut Scholz e il premier britannico Rishi Sunak sono stati i più solleciti, a livello di capi di governo. E vediamo la partecipazione delle istituzioni europee e di singoli leader, come l’italiana Giorgia Meloni, a vertice di pace promossi da altri – come l’incontro organizzato oggi dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi -.

In Medio Oriente l’Europa è gregaria, pur essendone dirimpettaia nel Mediterraneo. Nel 1980, ci fu un atto di coraggio, con il riconoscimento al Vertice di Venezia dei diritto dei palestinesi a una loro ‘home land’. Ma da allora gli europei sono sempre stati visti, da israeliani e palestinesi, come quelli che forniscono assistenza e cooperazione, mentre le garanzie di sicurezza vengono, o non vengono, dagli Stati Uniti. E la passività europea, di fronte al mancato rispetto, per trent’anni, degli accordi che sanciscono il principio dei due Stati, ciascuno sicuro all’interno dei propri confini, non ha certo giovato alla credibilità dell’Ue nella Regione.

Per i 27, la nuova fase di un vecchio conflitto diventa anzi pretesto per un giro di vite ai controlli sull’immigrazione, con una serie di decisioni nazionali indubbiamente giustificate dal ripresentarsi della minaccia terroristica, che a più riprese nel XXI Secolo ha investito l’intero continente del pericolo terrorismo.

Di fatto, le misure segnano arretramenti, magari temporanei, nel processo di integrazione; e c’è l’impressione che a qualcuno non dispiaccia. La libera circolazione delle persone viene rallentata dai controlli interni su eventuali infiltrazioni terroristiche lungo le vie delle migrazioni suffragate dai casi di lupi solitari radicalizzatisi in Europa, come il tunisino che, sbarcato a Lampedusa nel 2011, spara a Bruxelles e uccide due svedesi 12 anni dopo. E la scia di attacchi e allarmi in Francia alimenta l’ansia.

Ci sono riunioni straordinarie dei leader dei 27 e dei ministri degli Esteri e dell’Interno. Ma, a parte l’impegno a rendere le frontiere più sicure e ad aumentare i rimpatri, da cui i controlli ai confini, decisioni concrete poche ed azioni concrete zero.

E riaffiora pure la tentazione, da cui persino il presidente Usa Joe Biden mette in guardia Israele, durante la sua visita di otto ore, di combattere il terrorismo sopprimendo alcune nostre libertà, come quella di esprimere il proprio pensiero e di manifestare a favore del popolo palestinese, che non può essere identificato con Hamas. Un modo di darla vinta ai terroristi dicendo di combatterli.

Foto di apertura di Danny Froese su Unsplash