Dopo “mia madre”, “mio padre”: si chiama “tre piani” la mossa del cavallo di Moretti, ferma da un anno. Vediamo il romanzo israeliano da cui è tratta.

Il buio in sala – Foto di Felix Mooneeram su Unsplash

Al termine di un anno in cui molti degli autori più determinati ad attendere la riapertura delle sale hanno dovuto spostare i loro film sulle piattaforme digitali, alcuni irriducibili continuano a presidiare il campo del cinema in sala. Fra questi Carlo Verdone, che il suo “Si vive una volta sola” lo aveva appena presentato alla stampa quando la chiusura dei cinema al nord lo ha costretto a fermare tutto, e Nanni Moretti, il cui “Tre piani”, pronto da un anno, dovrà attendere ormai la primavera inoltrata. O, più probabilmente, il festival di Cannes, ottimisticamente previsto per luglio. Intanto da qualche mese il regista romano ha messo in rete le prime prudenti anticipazioni sul film: a cinque anni da “Mia madre”, con la sua prima opera tratta da un romanzo (classica mossa del cavallo), Moretti completa il dittico familiare. Circondato dal mistero (e dal pudore) che sempre avvolge i suoi film prima dell’uscita, “Tre piani” mostra i contorni di un possibile “Mio padre”.

Luigi Moretti è stato un cardinale della cultura italiana. Ordinario di storia greca (Palermo e Bari), poi di epigrafia greca e latina (Napoli e Roma), segretario dell’Accademia Pontificia Romana di Archeologia, nasce come allievo di Gaetano De Sanctis, uno dei 12 accademici che avevano rifiutato il giuramento di fedeltà al fascismo e primo presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dopo la guerra. Entrato all’I.E.I. come redattore di storia antica e archeologia, diventa, succedendo a Umberto Bosco, direttore dell’intera lessicografia Treccani del dopoguerra: Dizionario Enciclopedico e Lessico Universale (i supplementi) e soprattutto La Piccola Treccani, che non farà in tempo a veder pubblicata (muore a 68 anni nel ’91), ma che porta il suo nome. Causa Covid, il film del figlio uscirà nel trentennale della morte.

Come John Cassavetes e molto cinema indipendente americano – o come, da noi, Marco Bellocchio – Moretti ha spesso coinvolto la famiglia nella sua opera. Tutta la famiglia: madre (Agata Apicella: “Aprile”), fratello (Franco:

L’emozione del grande schermo – Foto di Julien Andrieux su Unsplash

“Paté de bourgeois”, “La sconfitta”, “Io sono un autarchico”), moglie (Silvia Nono: “Aprile”, “Il giorno della prima di ‘Close up’”), suocera (Nuria Schoenberg, figlia di Arnold e moglie di Luigi Nono: “Aprile”), figlio (il piccolo Pietro: “Aprile”), ma nessuno con la frequenza del professore, presenza fissa in ogni suo film. Finché è vissuto, cioè fino a “Palombella rossa”, in ogni pellicola del figlio c’era un cameo riservato al padre, in parti per lo più umoristiche. La foto ritrae l’austero quanto spiritoso cattedratico nella parte di un giudice in “Palombella rossa”. Guardate adesso Nanni nella parte del magistrato protagonista di “Tre piani” e vi sorprenderà la somiglianza. A cominciare dalla barba, tagliata nello stesso modo, molte cose sembrano concorrere ad un’evocazione voluta e inequivocabile. Ma chi è il giudice-padre di quel terzo piano, che nello schema simbolico freudiano alla base del romanzo è quello del Super io (i primi due sono quelli dell’Es e dell’Io)? Da tempo la psicanalisi ha un posto particolare, non facile a definirsi, nel cinema di Moretti ed è inutile cercare di indovinare come il romanzo di Eshkol Nevo sia stato modificato nel passaggio di ambientazione da Tel Aviv a Roma; cioè come Moretti lo abbia fatto suo (con il consenso dell’autore). Lo vedremo. Per ora possiamo solo fare un altro passo avanti (o di lato) seguendo la traccia del romanzo da cui il film è tratto, da tempo in libreria. Personalmente considererò un successo l’aver procurato lettori a questo bellissimo libro, se ci sarò riuscito. A procurare spettatori al film basta Moretti, da sempre ottimo promoter di sé stesso. Questo è il romanzo.

TRE PIANI di Eshkol Nevo (ed. Neri Pozza)

Al primo piano ci sono i LEBANONI. Arnon è un architetto, specializzato nella progettazione di ristoranti; sua moglie Ayelet, un brillante avvocato. Hanno due figlie: Ofri (10 anni) e Yaeli (3). Nell’appartamento a fianco vivono i coniugi WOLF, ebrei tedeschi. Lui, Hermann, ha sul braccio il tatuaggio del campo di sterminio; è anziano e manifesta i primi sintomi dell’Alzheimer. Lei, Ruth, è pianista. Hanno tre figli e cinque nipoti, sparsi fra Parigi, Vienna e Palo Alto. La più grande (Karin, 17 anni) fa danni nella “Ville Lumière”.  Un incidente fra l’anziano smemorato e Ofri, che gli è stata imprudentemente affidata dal padre, si conclude con tanta paura e nient’altro. Così almeno pare, e non c’è motivo di dubitarne, ma il padre sospetta chissà cosa e si avvita in un’ossessione pericolosa. L’impulsività di Arnon, preda di un’irragionevole sindrome protettiva, mette assurdamente a rischio, il suo equilibrio nervoso e la vita di tutti (qualcuno la perderà), la serenità della bambina e la fiducia della moglie. Un altro “incidente”, di tutt’altro tipo, fra Arnon e la 17enne Karin, stupidamente generato dallo stesso parossismo indagatorio, farà il resto. È un amico scrittore, compagno di servizio militare, a raccogliere al tavolo di un ristorante le imbarazzanti confidenze di Arnon sui guai di questo primo piano. Il piano degli impulsi e delle paure irragionevoli: quella del pedofilo, del nemico, del mondo. Il piano dell’incoscienza propria e di quella presunta degli altri. Della paura che si mangia l’anima. Al secondo piano di questa palazzina del “Borghesistan” (così lo chiama la giudice Adelman, terzo piano), sobborgo satellite di Tel Aviv, c’è la famiglia GAT. Assaf, dirigente industriale, è sempre in viaggio; Hani, grafica pubblicitaria, è in maternità; i bambini, due anche qui, sono Liri (la più grande) e Nimrod, l’ultimo nato. Assaf, di famiglia modesta, non ha fatto le scuole “giuste” ma è un professionista di successo, buon padre e marito, purtroppo sempre lontano. Hani le ha fatte, ma è professionalmente insoddisfatta e in casa, sola con i due bambini, sente addirittura vacillare l’equilibrio mentale. Per di più, in assenza del marito, che lo caccerebbe a calci, si presenta un giorno alla porta il fratello sciagurato di lui, sparito da tempo e mai amato.

Il bel manigoldo è in fuga da polizia e mafiosi per una truffa finanziaria che lo vede ricercato in tutta Israele, tanto da chi vorrebbe fargli la pelle quanto da chi si accontenterebbe di sbatterlo in galera e lasciarcelo. Hani è terrorizzata: non se la sente di ributtarlo in strada, ma non può neanche ospitarlo. Non è mica matta – non fino a quel punto, almeno – nonostante quei misteriosi barbagianni che la sua mente partorisce e che le parlano, un po’ come il grillo di Pinocchio. Però ci sa fare, quella faccia da schiaffi. Bravissimo coi pupi, che lo chiamano subito zio senza averlo mai visto prima, è attraente e simpatico. A pensarci bene, forse una soluzione c’è. Da qualche giorno l’appartamento dei vicini è vuoto: la famiglia KATZ (moglie, marito e quattro figli) è a Creta in vacanza.

Strana casa, quella dei Katz, piena di orologi: decine e decine di orologi da muro, di tutte le fogge, di tutti i paesi, uno a fianco all’altro. Un’orchestra incessante e lieve di tic e di tac e di cucù, perfettamente sincronizzati 24 ore al giorno. Le chiavi per innaffiare le piante e dar da mangiare al gatto ci sono. Si tratta di far passare i pochi giorni che mancano a un espatrio clandestino già organizzato. È la stessa Hani, in una lunghissima lettera regolarmente imbucata (ottanta pagine!) a una vecchia compagna di scuola psicanalista a New York, a raccontare i patemi e l’avventura. Il desiderio e le angosce della maternità, la paura dell’inadeguatezza e della follia, la salvezza cercata e trovata in un lavoro qualunque. La benedizione del risveglio della fisicità. Sono le avventure del secondo piano, quello dell’io, mentale e fisico. Dove “mentale” è (copula) “fisico”.

Al terzo piano c’è una donna sola. È il giudice distrettuale in pensione Dvora ADELMAN, vedova del giudice Michael. Hanno un figlio, Adar, gran combinatore di disastri, malamato da un padre che si vergognava di lui. Da anni ormai, scontata una pena in carcere, si è chiuso la porta di casa dietro le spalle. Sparito, si nega a tutti. Sempre che sia ancora vivo. Non visto né sentito alla morte del padre, ostile anche alla madre, se n’è andato. Il senso di giustizia sociale dei genitori e la responsabilità del ruolo (il padre giudice, che forse avrebbe potuto, si era rifiutato di aiutarlo ad evitare la condanna) li hanno allontanati da lui. Anche la madre, fra il figlio e il marito, ha scelto il marito. Loro hanno ragione e lui torto, non c’è dubbio; ma qui non si fa questione di torti e di ragioni. Piuttosto di come conciliare rispetto della legge e responsabilità della paternità. E di come quest’ultima non possa sempre nascondersi dietro lo schermo della responsabilità sociale. Forse. La storia vedrà entrare in gioco un ex agente del Mossad in pensione (Avner Ashdot), che il ruolo rivestito nei servizi di sicurezza e le porcherie viste e fatte nel suo esercizio hanno allontanato dalla moglie (poi morta) e dalla figlia, coltivatrice ed inesausta sperimentatrice di biotecnologie in un kibbutz ai confini con la Giordania. Ci sono molti ragazzi in questa storia, che riempiono Tel Aviv di tende in strada per protestare contro la crisi dei fitti, in un pacifico e travolgente movimento “contro”, che affascina Dvora, che a loro, in queste tende, fornirà le sue appassionate consulenze giuridiche (è in pensione, vivaddio, e può finalmente fare quel che le pare). Non sarà ancora in tempo per suo figlio, magari, ma lo è per tutti gli altri.

È lei, Dvora, a raccontare le avventure del terzo piano (che ospita anche gli indolenti RAFIEL, Avraham e signora, dediti alle serate di poker con gli amici). Le avventure del padre e del figlio; della legge e del cuore; di come vivere umanità e socialità insieme, senza che l’una faccia marcire l’altra. A chi raccontare tutto questo prima di abbandonare il Borghesistan per la città, prima di lasciare la casa coniugale per una solo sua? Al marito, ovvio, sempre vivo e presente fra quei muri. Ma come creare quell’illusione interlocutoria indispensabile alla confidenza? C’è una vecchia segreteria telefonica, di quelle che non esistono più, trovata in un cassetto con ancora il vecchio messaggio inciso dalla voce del giudice. “Buongiorno, qui parla la famiglia Adelman. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. Vi richiameremo il più presto possibile”. Ha una finestra di registrazione di due minuti. Bene. Per giorni lei leggerà i fogli di diario di questo racconto, ognuno di due minuti, fra un “bip” e l’altro. Glielo deve, a quel somaro. Perché qualcuno che potrà ascoltarli questi messaggi, anche se chissà quando, adesso è saltato fuori. E deve saperlo, quel testone. «Amore mio, mio fiore, mia sventura…»