Per grande che sia, nessuno può coprire la terra.

[‘Poemetto sumero’, XXI sec. a.C.]

TUTTIeuropaventitrenta – Endecasillabo

Il “dire poesia”, – annotavamo a margine d’una precisa richiesta delle edizioni «Prova d’Autore», – non può acriticamente accogliere il dominio del profondo in opposizione all’idea di superficie intesa – in modo erroneo – minoritaria. Nella commossa pagina di Filippo de Pisis indirizzata al “Farfallino” si narra dell’occhio del Marchesino pittore (occhio di poeta, occhio di pittore) fisso sulla «superficie chiara del tavolo su un punto nero» che «non era un punto, una scheggia, un filo attorcigliato», piuttosto «un farfallino, un “micro lepidottero”». Ristrettissima superficie in cui s’agitano «aluccie nere ravvolte come in un ventaglio chiuso» e «verso l’estremità un anellino bianco e poi come fosser davvero strette da un elastico, le aluccie si aprivano un po’ in due punte, in due minuscole code»; poi «davanti il capino e i filamenti delle zampe appena visibili e delle corna, le antenne, lunghe con una graziosa ondulazione.»

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Sono parole che dicono, di là dall’apparente patina descrittiva, come la poesia navighi, reversibilmente, dalla pagina alla lastra geografica, estendendola e penetrandola orizzontalmente, quasi un rizoma, fino ad entrare nella macchina delle esistenze, cioè nella vita e nelle cose che sono – ricordando Adelchi Baratono – esse stesse ‘esistenza’. Ci sembra impossibile non rivolgere attenzione ai segni turbinanti su tale lastra in cui la parola agisce e da cui coglie nutrimento rendendo tangibili le varie forme della conoscenza, per essere (espungendo dalla varietà dei sub-sensi) altresì phármakon. È la sua voce, voce laringea e di pensiero, che si spinge nel vento leggero del dire poetico, che trascina il respiro e l’intima creta della sua evoluzione. Parola che stabilisce, – in precipui suoni, in timbri, – l’intensa capacità d’interazione diventata misura di ogni superficie, pronta a restituirci l’eco per riscrivere, significare, leggere il paesaggio sonoro, gli umori terrestri in cui s’è maturata. Potremmo affermare che la parola sia quel composto semiotico identificativo del suolo geografico da cui è gemmata: parte integrante (biografia/geografia) della scrittura della terra, della totalità dell’esistente.

Superficie, dunque, quale ecosistema nel quale confluiscono snodi di un linguaggio pertinente a quella semiotica globale nella quale ci ha introdotto Thomas Sebeok, e che attiene alla conversazione basilare tra gli accadimenti biologici. Che sempre ci sia stata la tendenza a destinare valore minoritario alla nozione di ‘superficie’ lo conferma l’avvertimento deleuziano. «Strano pregiudizio» – avverte Gilles Deleuze – quello «che valorizza ciecamente la profondità a scapito della superficie, pretendendo che superficiale significhi non già di vaste dimensioni, bensì di poca profondità, mentre profondo significa di grande profondità e non di superficie ristretta». Tale osservazione citata, com’è noto, anche dallo scrittore Michel Tournier (il celebrato autore di Vendredi  ou la Vie sauvage, rimodellatore di materie ancestrali per pieghe ‘reali’ e ‘fantastiche’) suona opportuna, nel momento in cui la presunta scarsa penetrazione della geometria di superficie tenderebbe ad escludere, sic et simpliciter, l’ampio spazio conoscitivo; a ciò si oppone la dimensione rizomatica espansa nel privilegio della sua orizzontalità, nel modo in cui oggi la digital art è protesa nei valori di rhizome, cioè arte, cultura, parola confezionate in tecnologie di rete dove la ‘rappresentazione’ e il ‘dire’ assumono efficaci prospettive per nuovi significati.

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I molteplici segni di minorità assegnati alla poesia e, obviously, ai poeti, eludono, sicuramente per incultura, l’agire poetico: secrezione ideale non certo mossa da un ispirato caracollare tra nuvole aristofanesche, ma dal suo tenace ancoraggio nell’ampia concimaia dei fatti anche in virtù dell’affermazione, cara a Keats (lo ricorda Nadia Fusini), per cui il poeta “è la più impoetica delle creature”, sempre in conflitto con l’insulto delle emozioni, umilmente ficcato nella crosta della realtà, nel grumo della storia. Leonardo Sciascia, scrivendo di Mario Gori, annotava nel 1959 come Niscemi, luogo nativo del poeta, fosse «l’unico paese in cui le insegne del separatismo non siano state ancora ammainate». Egli, promotore del ‘Trinacrismo’ per il rinnovamento della poesia dialettale, proprio a Niscemi – afferma Sciascia – dalla cui balza argillosa si scorgono gli antichi virgiliani ‘campi geloi’, «rischia di diventare una specie di istituzione: non un poeta ma “il poeta”. Col suo maglione nero e la faccia nera di barba, con apparenze assonnate e distratte, ha tutti i numeri per incarnare l’idea che il popolo della campagna si fa della poesia e del poeta (una cosa leggera aerea sacra, direbbe Platone) e quella denigratoria e malevola che ne ha il “galantuomo” (l’assoluto perditempo, numerazione e minorità dell’uomo)».

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La poesia, dunque, è voce che rifugge la quiete dei ‘galantuomini’; de Pisis, invece, nell’apparente tranquillità delle sue tele floreali, non ci fa leggere bocche, labbra, denti e gole arse, anzi li cela nel tripudio di fiori recisi, agili mentre accompagnano la complessa interezza della sua vita, il minuto viver quotidiano, le rare quanto intense gioie. L’uso della poesia, del suo dire, del suo mostrare, direbbe Benjamin, si attesta sulla possibilità di riavviare, ora nel roccioso tessuto del discorso ora nella sua lentezza meditativa, speculativa, genuina che le son propri, quegli improvvisi salti semantici pronti a consegnarci una ‘accelerazione del pensiero’ secondo il pronunciamento di Brodskij. Sono i ‘salti lessicali’ a definire le distanze, a potenziarne i significati; salti rintracciabili nella segnaletica geografica della letteralità, nella musicalità impressa dalla prosodia, così per le necessarie, velate oscurità della parola. D’altronde per Femònoe, prima Pizia a Delfi ai tempi di Acrisio, quando «le mostrarono scritta l’interpretazione delle sue parole», – raccontano i versi di Jannis Ritsos – lei, l’interprete magnifica degli esametri del dio, «non capì nulla». Si trattava probabilmente d’altro.

Aldo Gerbino

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