Al ritorno, stordito ed affamato, dal Liceo, ove, nell’aula destinata alla IV B, aveva presentato la “Critica della ragion pura” di Immanuel Kant, il prof. Dario Portelli non aveva perso tempo a divorare una ricca portata di spaghetti al pomodoro, preparatagli da Gianna, moglie e grande amore della sua vita. Indi, liberatosi della cravatta, croce in perpetuum e mai delizia del suo abbigliamento quotidiano, si era steso, in maniche di camicia, sul divano del soggiorno per un breve riposino pomeridiano. Il quale, però, venne sostituito, senza sua espressa volontà, da una lunga serie di ricordi e fantasie che, come un film inarrestabile, gli scorrevano nella mente.

In primo luogo, gli si presentò alla memoria un adolescente sedicenne, suo evidente alter ego, nel momento in cui, frequentando la seconda liceo scientifico, entrò in classe – prima assoluta – con un paio di pantaloni lunghi di velluto marrone. Constatando la sua inedita mise, il prof. Parisi, ordinario di Scienze naturali, abituato a vederlo abbigliato da sempre con pantaloncini corti, quasi all’inguine, fu indotto a una simpatica battuta, col sorriso sulle labbra: “Mi sembri proprio un massarotto proveniente dai vigneti della Falconara. Ma vediamo se sei cresciuto anche in specifiche conoscenze scientifiche”.

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La nuova foggia gli valse una subitanea interrogazione e un bell’otto che sancì la preparazione specifica dell’alunno cresciutello, ma comunque alquanto a disagio per qualche tempo con i pantaloni lunghi. D’altra parte, si trattava per lui di una toilette assolutamente inedita, dato che i pantaloncini corti erano stati per lui, come per tutti i suoi coetanei, la norma dalla nascita fino a quel giorno fatidico. Fu fatale per Dario dar campo libero ai ricordi, quando, bambino di soli quattro anni, dopo lo sbarco degli Anglo-Americani, era solito, insieme ad altri coetanei, “invadere” il quartier generale dell’Armata vittoriosa al corso Garibaldi. Ivi, un aitante militare nero, addetto alla portineria, si dilettava a prendere in braccio e a intimorire, sollevandoli più in alto che poteva, i ragazzini che, pur impauriti, già pregustavano caramelle, gallette e marmellate varie che li attendevano dopo lo spavento indotto, per puro divertimento, dall’American simpaticone. C’era nella manovra una piccola complicazione, dovuta al fatto che il militare, per non correre il rischio di fare del male senza volerlo, nel riafferrare i fanciulli dopo il lancio nel vuoto, finiva per assestar loro solenni scapaccioni alle natiche scoperte a causa dei mini-pantaloncini che costituivano la loro divisa nella quotidianità ma anche nelle feste comandate.

Dopo la fase storica immediatamente post-bellica, sia Dario sia tutti coloro che erano nati nel periodo bellico erano convinti che i mini-calzoncini fossero una sorta di abbigliamento obbligatorio, in qualunque stagione, stabilito da chissà quale inappellabile autorità. Tale persuasione pre-razionale era avvalorata dal fatto che tale mise era universalmente adottata. Pervenuti alla scuola elementare, i prepuberi dovettero, tuttavia, prendere atto di una novità, costituita dai ridicoli pantaloni indossati da Nuccetto, figlio del barone dello Stradicò, che gli arrivavano fino al ginocchio. Considerata l’imperizia, l’incapacità di fare amicizia con i compagni e lo strano comportamento del “signorino” – così lo chiamava il maestro su suggerimento-comando del padre barone – il povero Nuccetto divenne oggetto di riso e a volte di scherno dell’intera classe. Decisivo fu anche il suo no secco a partecipare ai giochi e perfino alle passeggiate serali dei gruppi dei pari in piazza, al viale Lido o a Marevecchio. Dopo le ore trascorse in aula, lo si vedeva solitario guardare in modo inespressivo che mal nascondeva la tristezza interiore, i compagni di classe che passavano, liberi e giocherelloni lungo la via del suo palazzone. Nuccetto li osservava in solitudine dal terzo piano, da cui si sporgeva tenendo le mani serrate al balcone con i pantaloncini che gli scendevano fin sotto le ginocchia. Istintivamente, divenne per tutti i coetanei l’esempio da non imitare in alcuna occasione.

Tornando al nostro Dario, la conquista dei pantaloni lunghi da massarotto fu seguita da un ulteriore passo avanti, costituito da un secondo paio di pantaloni di colore azzurro chiaro, destinati ad alternarsi ai primi per comprensibili motivi igienici. Se si sporcava la mise da massarotto, non si poteva ovviamente ritornare ai pantaloncini corti, peraltro già passati ai suoi due fratelli più giovani. Ovvio. Lo stesso avvenne per l’abbigliamento della parte superiore del corpo con un alternarsi di camicie e golfini di cotone, necessari anche per far colpo sulle compagnette e sulle fanciulle per cui cominciava a battergli il cuore. Costoro, senza eccezioni, indossavano lunghe gonnelle ben sotto il ginocchio, calzettoni scuri di cotone e scarpette con tacchi bassi. Se qualcuna di loro si presentava in pubblico con tacchi alti e con un po’ di rossetto alle labbra, veniva guardata con sospetto: “Non si è per caso fidanzata ufficialmente? Così giovane, poi?”. Non impressionava granché, invece, il colore delle camicette, ma sol perché sembrava logico che si differenziassero dai maschietti, soprattutto da quelli che facevano il loro ingresso nell’età della pubertà, denunciata da una lieve peluria al mento e sotto il naso.

Quanto a Dario, pur sensibile al fascino femminile fin dall’epoca pre-adolescenziale, aveva difficoltà a seguire nell’abbigliamento i progressi dei compagni, degli amici e dei coetanei anche di altre città, tra cui emergeva Siracusa, sede della provincia regionale, la cui gioventù rampante che avanzava nel tempo era da molti considerata un modello e un punto di riferimento ineludibile per non apparire démodé.

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Il primo reale salto di qualità avvenne nel mese di luglio successivo alla promozione in terza liceo scientifico, allorché sua madre, dopo aver comprato della stoffa color carta da zucchero, lo condusse dal sarto De Gregorio, il quale esordì con un’espressione di trionfo: “Per la festa di Santa Venera preparati a far colpo sulle ragazze avolesi”. Non ne fu per niente impressionato Dario, il quale, allorché il buon artigiano gli propose tutta una serie di coloratissime cravatte, tra cui scegliere quella che faceva al caso suo, inorridito gridò: “Non sia mai. Nessuno mai mi convincerà a strozzarmi volontariamente. Mi fa già impressione mio padre quando si accanisce col nodo delle sue cravatte… No, della cravatta farò a meno per sempre”. Fu di parola Dario che, dal successivo inverno, si convinse a consentire alla madre, ma solo per problemi climatici, di comprargli un simpatico cappottino grigio di seconda mano, ma praticamente nuovo. Sì, perché Piero, un diciassettenne vicino di casa, che l’aveva appena comprato, essendo nell’età del rapido sviluppo, dovette prendere atto al momento di indossarlo per Natale di essere cresciuto al punto che le maniche gli arrivavano al gomito. Non gli rimase altro che l’invidia nel vederlo indossato a buon mercato da Dario, ma solo fino alla primavera successiva, quando il compratore lo raggiunse e poi lo superò in altezza. Ne furono felici, naturalmente, i suoi fratellini.

Per tutto il periodo universitario nel corso di laurea in Storia e Filosofia, il buon Dario accettò cambi di pantaloni, calzette, scarpe, camicie e pullover, nonché leggeri soprabiti di colore marrone o grigio o scuro o, addirittura, fumo di Londra, ma, quanto a cravatte, resistette fino al giorno della laurea conquistata a pieni voti. “Ma solo per far piacere alla mamma”, precisò, anche perché Gianna, la sua ragazza, al riguardo, si mostrava indifferente: “Ti amo a prescindere da cravatte, vestiti e cappotti”. Lei era però alla sua eleganza ci teneva, ma sempre per amore di Dario. Con apparente noncuranza indossava gonne appena sotto il ginocchio, camicie variamente colorate, foulard e soprabiti di gusto raffinato.

Iniziando il suo iter di docente di Storia e Filosofia nei licei, Dario fu costretto, anche su consiglio pressante del preside, suo ex-docente di Matematica e Fisica, a non rinunciare mai alla cravatta: “Sei troppo giovane per permetterti di presentarti alle classi in pullover o peggio in camicia sbottonata. Già noto che le ragazze, vedendoti apparire in fondo al corridoio, non perdono occasione per deliziarti con significativi sorrisi…”.

Per quanto tendenzialmente disattento verso i fenomeni della moda e dell’abbigliamento in genere, Dario si interrogava sul significato del boom nell’uso dei jeans sia da parte maschile che da parte femminile a partire dagli anni Sessanta, soprattutto in considerazione del fatto che nei centri urbani del Sud-Est, caratterizzati da temperature estremamente miti, non c’era alcun bisogno per le ragazze di coprire le gambe fino alle caviglie. Il che era perfettamente comprensibile, ma solo per la stagione invernale, per le coetanee e le signore che abitavano nei paesi e nei borghi montani dell’Etna, dei Peloritani, dei Nebrodi ed anche degli Iblei.

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Non ebbe, comunque, neppure il tempo materiale di una riflessione approfondita sul perché della moltiplicazione dei jeans e dei pantaloni in genere in campo femminile: “Forse semplice evoluzione della moda per potenziare l’onesta e gradevole intenzione di mettere meglio in evidenza le proprie grazie?”, che una innovazione choc sconvolse i parametri ancestrali della moda femminile. In coincidenza con la Contestazione globale del ’68, come in risposta ad un segnale convenuto proveniente da chissà dove, esplose nelle ragazze e pure in molte donne di mezza età del mondo occidentale l’ardita – così apparve allora – moda della minigonna. Per la verità, Dario, neosposo di Gianna, in viaggio di nozze a Parigi, fu di punta in bianco sconcertato fino ad esserne sconvolto da una pervasiva invasione di ‘minijupes’, che lasciavano completamente scoperte le gambe della stragrande maggioranza delle “jeunes-filles” che praticavano “les Grands Boulevards” e “les Champs Elysées”.

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Particolarmente esagitato gli sembrò un folto gruppo di ragazze inglesi, tutte rigorosamente in “miniskirts”, felici di mettere in mostra parte non secondaria della biancheria intima. Non sapendo che pensare, Dario si rivolse a Gianna, la quale, sorridente, così gli rispose: “Per dirtela tutta, dopo la visione del film-documentario ‘Woodstock’, era il meno che mi aspettassi!”. “Ma, di ritorno in Italia, pensi di trovare qualcosa del genere pure da noi? E poi, come si chiamerà lì, nella nostra città, la ‘minijupe’?”. “Ovvia la traduzione, cioè minigonna, di cui nei giornali femminili che tu ti ostini a non leggere si parla già da qualche mese”. “Ma è scioccante per i benpensanti tra cui non esito a collocarmi!”. “Tranquillo – aggiunse Gianna con un filo di sorniona malizia – le tue allieve liceali si incaricheranno di trasformare in mera routine la ‘scandalosa’ novità”.

Profetica intuizione! Qualche giorno dopo l’inizio delle lezioni, le gambe in bella mostra delle allieve di Dario mutarono in allegra quotidianità l’esibizione di quel ben di Dio che infinite generazioni di donne avevano ostentato con grande parsimonia solo in castigati costumi da bagno durante la stagione balneare.

 

Foto di apertura: “Foto-scolaresca-a-Bologna-06” di Albertomos, licenza CC BY-SA 4.0.