I paragoni sono sempre molto arrischiati in sede storica, anche se la tendenza dei giorni nostri è di moltiplicarli, spesso al di fuori da ogni logica razionale. Sembra tuttavia difficile negare che l’odierna pandemia sia, anche sul piano diplomatico, il fenomeno più rilevante delle relazioni internazionali, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989.

Con una differenza: allora, si disegnava un’epoca di apertura e speranza, che metteva fine alle incognite di una terza guerra mondiale, che da fredda poteva diventare calda in qualsiasi momento. Non era un pericolo ipotetico. Lo storico Georges-Henri Soutou ha calcolato nel suo magistrale La guerre des cinquante ans (Fayard) che si verificarono, dagli anni Cinquanta in poi, non meno di venti conflitti alla periferia dei due imperi, americano e sovietico, dalla Corea a Cuba, con la Cina popolare quale terzo incomodo. Bastava un errore a provocare una deflagrazione dagli esiti apocalittici. Kubrick lo ha descritto nel suo film Doctor Strangelove, dove Peter Sellers mette il fuoco alle polveri, volendo invece ricercare la pace universale.

Nondimeno, caratteristica di queste contese era la loro relativa prevedibilità. Si sapeva o quantomeno si poteva calcolare, a cosa si andasse incontro forzando la mano, e l’equilibrio nucleare della deterrenza (altrimenti detto, del terrore) intimava di non farlo oltre un certo coefficiente di rischio. Le colonne d’Ercole della coesistenza Est-Ovest garantivano la sopravvivenza dell’intero pianeta, fino alle frange estreme dei blocchi. La decolonizzazione, ad esempio, era un fenomeno le cui avvisaglie erano percepibili già da prima dei due conflitti mondiali.

Gli Stati Uniti l’incoraggiarono massicciamente dopo il 1945 per esportare la loro particolare “ricetta” di democrazia, finché dovettero accorgersi che la propaganda comunista era più forte e pervasiva, e cambiarono radicalmente approccio, impantanandosi nell’assurda e dispendiosa guerra del Vietnam. Altrove si registrarono veri e propri scambi di cortesie tra dominatori del mondo. Gli americani sostennero la primavera di Praga; ma quando l’esperimento andò troppo lontano, non batterono ciglio di fronte all’ “aiuto fraterno” dei paesi del patto di Varsavia, che soffocarono il socialismo dal volto umano di Dubcek. Analogamente, i sovietici tennero a battesimo il governo di unità popolare di Allende in Cile, ne indirizzarono la fallimentare politica economica ma se ne lavarono le mani, allorché Washington appoggiò e armò il golpe di Pinochet, in nome della dottrina Monroe, precursore ottocentesco della dottrina Breznev. Nihil novi

La pandemia, invece, ha la caratteristica di essere priva di contorni ideologici definiti. È un flagello egualitario, nel senso medievale del termine, che ha colpito il Nord e il Sud del pianeta, i paesi ricchi (quasi) come quelli in via di sviluppo, i novelli Don Ferrante no-vax, che non credono alla peste, come gli ospiti delle case di riposo per anziani che sono stati i primi a fare le spese della sottovalutazione del Covid. A differenza del 1989, la pandemia non ci ha affratellati ma divisi.

Ciascun paese si è votato alla ricerca prima degli altri della formula magica, del rimedio salvifico, in cui, come nella dedica del Faust di Goethe, «il mio compianto suona e ignora moltitudine/ e quanti, se pure vivi/ errano nel mondo oggi dispersi». Il caso più rivelatore è stato quello del Regno Unito della Brexit, unito ahinoi (e ahiloro) soprattutto contro l’Europa continentale. Il primo ministro Johnson, ex europeista “redento”, quando ha capito che gli umori popolari soffiavano contro Bruxelles, ha prima proclamato la ricetta svedese dell’immunità di gregge, poi, anche per effetto del virus che stava per inviarlo ad patres, ha optato per una difesa territoriale degna della battaglia d’Inghilterra del 1940, mentre l’industria nazionale sviluppava il proprio brand e si procedeva con ferrea logica militare ad una vaccinazione a tappeto che oggi è vicina alla copertura nazionale, molto prima del resto dell’Europa e del mondo.

Ne usciremo tutti insieme, almeno in Italia e Occidente, a breve-medio raggio? Pare di sì, sulla base dei dati scientifici ragionevolmente disponibili. Quel giorno, passata a’nuttata, tireremo tutti un sospiro di sollievo; ma per quanto tempo ci ricorderemo della tragedia che è avvenuta e di come essa debba cambiare valori e modi di vita? La memoria collettiva è labile e l’informatica, con la sua accelerazione ossessiva, non migliora certo le cose. Al di là del fattore umanitario, il primo che merita di essere preso in considerazione da una società civile, gli interessi economici in gioco sono ormai troppo rilevanti per non lasciar spazio a soluzioni urgenti.

Alcuni elementi incoraggianti possono indicare un cambiamento di approccio e sensibilità rispetto ad epoche non lontane. È ormai noto che l’epidemia di “spagnola”, che si sviluppò in Europa a ridosso della Grande guerra, fece milioni di vittime, quasi quanto l’immane conflitto. Eppure, ogni ricercatore che compulsi le tonnellate di documenti disponibili sui trattati di pace del 1919-21 vi troverà appena la traccia di quella pandemia, considerata come un fattore secondario, indegno dei loro negoziati, da statisti della tempra di Wilson, Lloyd George, Clemenceau, Poincaré, Orlando e Sonnino. Pochi storici (oggi, sempre di più) hanno parlato dei disastri militari provocati o alimentati dagli aspetti metereologici che non furono tenuti in debito conto dagli stati maggiori: dalle avverse condizioni dell’Egeo, nel corso dell’aggressione italiana alla Grecia a fine ottobre 1940, al logoramento della Sesta armata di Paulus a Stalingrado, nella morsa del terribile inverno 1942, alla rottura delle dighe durante la campagna delle Ardenne del 1944, a numerosi altri casi.

Più vicino a noi, nel dicembre 1952, Londra, la più grande e popolosa capitale europea, fu investita dal fog, la nebbia delle basse pressioni alimentata dalle micidiali coltri industriali dei sobborghi. Il vecchio e ormai semispento Churchill, tra gli applausi scroscianti, dichiarò ai Comuni: «Il paese che ha piegato Hitler non si farà piegare da un’influenza». Oggi sappiamo che il fog, detto anche il Great smog, fece dodici o tredici migliaia di vittime in una settimana, molte delle quali non sono mai state registrate. Nessuno ne ha più parlato a livello pubblico fino ad un episodio recente della serie televisiva The Crown. Oltre trent’anni dopo, catastrofi come quella di Cernobyl nel 1986 furono viste in Occidente (chi scrive era in servizio a Mosca e lo ricorda bene) più come un fallito test di efficienza nucleare dell’Unione Sovietica che come un’emergenza umanitaria di immani dimensioni.

Il Covid cambierà il nostro approccio alle relazioni internazionali? Forse, e se siamo ottimisti, auspicabilmente sì. Ancora alla fine degli anni Novanta, l’agenda dei vertici G7/G8 (in parte almeno aperti alla Russia, poi esclusa per una miope politica sanzionatoria) era essenzialmente politico-economica in senso tradizionale.

Temi quali l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la lotta contro le pandemie (che già esistevano, eccome!), l’assistenza sanitaria ai PVS, il digital divide Nord-Sud, la sicurezza alimentare, i brevetti farmaceutici, il finanziamento congiunto delle campagne internazionali di vaccinazione (poliomielite, malaria, AIDS, ecc.) non erano temi considerati meritevoli di un dibattito approfondito da parte dei leaders e figuravano in calce ai documenti ufficiali. Solo dopo l’attacco alle Torri gemelle, durante la presidenza italiana del 2001, si riuscirono a mettere in prima linea gli aspetti della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale, considerati fino allora questioni da lasciare agli esperti, ai margini dei documenti politici.

Un’altra svolta, di carattere più formale che sostanziale, fu il vertice che l’Italia volle tenere nel 2009 all’Aquila, devastata dal terremoto. Fu un’occasione sostanzialmente sprecata di far toccare con mano ai grandi del mondo che la natura segue il suo corso, talvolta impazzito, senza curarsi delle schermaglie di noialtri abitanti (provvisori? La scienza non lo esclude) del pianeta.

E qui si tocca un ultimo punto fondamentale. Specialisti e virologi, oggi più numerosi ed eloquenti che mai – anche perché domani saranno dimenticati dai mass media che li corteggiano – sono divisi sulle terapie ma non cessano di rivendicare un principio di programmazione che avrebbe potuto risparmiare, o quantomeno contenere le immani perdite umane ed economiche della pandemia.

Ora, qualsiasi modesto addetto ai lavori sa bene che la programmazione è il proverbiale red herring di tutte le amministrazioni competenti, nei regimi democratici ancor più colpevolmente che in quelli che non lo sono. Ho molto frequentato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nei miei recenti anni di servizio ginevrino, ricavandone un’immagine nel complesso positiva sul piano della competenza: un po’ meno forse su quello dell’efficienza ma qui andrebbero chiamate in causa le responsabilità e le pressioni dei singoli membri e gruppi regionali. Orbene, se l’OMS avesse lanciato l’allarme, nel 2018 o ancora nel 2019, allorché il Covid (parente dell’allarme SARS di pochi anni prima) era ormai dietro l’angolo, spronando specie i paesi più ricchi a lanciare una grande campagna internazionale di profilassi, poco pagante elettoralmente, non vedo francamente chi le avrebbe dato ascolto, mettendo mano per tempo al portafogli.

La realtà dei nostri tempi, i cui effetti devastanti sono alimentati dai social, dal web e via dicendo, è di appiattire tutto sul breve periodo, e semmai sul dopo piuttosto che sul prima. Come non vogliamo apprendere dal passato, non vogliamo prendere in considerazione minacce per le nostre società che già si intravedono dietro l’angolo. “Meglio vale prevenire che curare”, è il detto leggendario attribuito a Ippocrate, che duemilacinquecento anni fa un po’ se ne intendeva. Purtroppo, viviamo esattamente all’incontrario. Resta da sperare che un’umanità di cicale abbia capito finalmente che, a imitare talvolta le formiche, vivremo tutti meglio e più a lungo.