Un lento, lentissimo addio. Il carbone resta in Europa una delle principali fonti d’energia, nonostante l’impegno a ridurre drasticamente le emissioni nocive per l’ambiente.

La buona volontà, messa nero su bianco in più occasioni, dalla Conferenza di Parigi del 2015 alla recentissima pre-Cop26 di Milano, si scontra infatti con una realtà assai difficile da modificare. Più del previsto.

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Nel 2020 la sola Germania ha prodotto 138 milioni di tonnellate di CO2. La Polonia 102 milioni. In Germania sono in funzione ancora 67 centrali a carbone, in Polonia 46. Più di trecento le centrali attive nell’Unione Europea. L’obiettivo, ambizioso, è di spegnerne 162 nel prossimo decennio.

Cifre riportate da Europe Beyond Coal, il network ambientalista che monitora giorno dopo giorno il rispetto degli accordi di Parigi e l’impegno di ridurre del 55 per cento le emissioni di anidride carbonica entro il 2030.

Ci sono, è vero, anche segnali incoraggianti. Dal 2016 a oggi la Germania – che è come abbiamo visto la leader europea delle emissioni inquinanti – ha chiuso 16 centrali a carbone. Ma questo processo ha subito un rallentamento. E nemmeno il probabile ingresso dei Verdi nel futuro governo a Berlino potrebbe bastare ad accelerare il ritmo della riconversione a energie meno inquinanti.

Ancor più difficile scalfire il blocco dell’Est, l’asse Polonia-Repubblica Ceca, in cui il carbone è per tradizione il motore dell’industria pesante. Appena due le centrali chiuse nell’ultimo quinquennio in Polonia, ma potrebbe presto aggiungersene una terza, quella di Belchatòw. Anche Praga ha annunciato l’imminente chiusura della grande centrale di Prunerov.

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Tuttavia le spinte nazionaliste dei paesi del blocco di Visegrad, innescate dal braccio di ferro con le istituzioni europee voluto dal governo di Varsavia, potrebbero rendere più difficile il processo di decarbonizzazione. Che non procede in modo lineare, ma con frequenti stop and go, come ricorda Alessio Foderi nel suo documentato articolo appena pubblicato sulla rivista Wired.

Non mancano infatti comportamenti contraddittori. Alcuni governi finanziano imprese che usano energia fossile, direttamente o sotto forma di decontribuzione. Aiuti di stato che vanno parzialmente a bilanciare multe e penalizzazioni per le emissioni inquinanti.

Ma l’Europa almeno sta procedendo sulla strada del rispetto degli accordi per combattere il cambiamento climatico. E può presentarsi alla Cop26 di Glasgow con le carte abbastanza in regola. Dal 2012 a oggi la quota di energia prodotta dal carbone è diminuita di un terzo, anche se il 20% dell’energia europea deriva ancora da fonti fossili.

Il problema è nel resto del mondo. La piccola Europa è responsabile di poco più dell’8 per cento delle emissioni nocive su scala planetaria. Se non si convincono Cina, India, Russia, ma anche Stati Uniti e Australia, Brasile e Giappone ad accelerare il processo di decarbonizzazione, non ci sono possibilità di rispettare gli impegni presi per il 2030 o per il 2050 (la famosa “neutralità climatica”). E la Conferenza di Glasgow è destinata al fallimento.

Altro che “decisioni inderogabili” come chiede Alex Sharma, il presidente della Cop26. Il panorama mondiale è tutt’altro che incoraggiante.

Il 70% dell’energia necessaria ai colossi dell’industria indiana deriva dal fossile. La Cina di Xi ha annunciato il progetto di quattro nuove centrali a carbone, anche se si è impegnata a non costruirne in paesi “satelliti” (si pensava che la Cina puntasse a coinvolgere l’Afghanistan dei talebani). Ma anche la democratica Australia sarebbe pronta a tornare sulla via del carbone, dopo qualche delusione avuta dalle energie rinnovabili.

Sì, perché la verità è che il processo di decarbonizzazione non è a costo zero. Mentre il prezzo del gas sale, anche per le turbolenze geopolitiche, le fonti alternative producono a volte meno energia del previsto. Insomma il costo della transizione ecologica ricade sulle economie nazionali.

E qui ci vuole chiarezza. Non può essere solo una piccola parte del mondo ad adottare comportamenti virtuosi. Le nostre imprese, già in difficoltà per la concorrenza aggressiva di paesi extra-europei dove i costi di produzione sono più bassi, sarebbero messe fuori gioco se anche il prezzo dell’energia fosse molto più salato rispetto a chi continua a usare impunemente fonti di energia “sporche” e low cost.

È quello che spiega anche Roberto Cingolani, ministro italiano alla Transizione Ecologica. Che ha cercato anche – senza successo – di porre all’attenzione il tema del nucleare “pulito”. Una fonte alternativa di energia, ancora in fase di sperimentazione e di ricerca, che potrebbe compensare in sicurezza la rinuncia alle fonti più inquinanti.

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Ci vuole molto coraggio, certo, ad affrontare questa tema. Eppure va notato che proprio in Germania l’addio annunciato al nucleare entro l’anno prossimo (per un costo stimato di 2 miliardi e mezzo di euro) ha prodotto una brusca frenata al processo di chiusura delle centrali a carbone.

La parola ora è alla politica, nel senso migliore del termine. Davvero Glasgow è la “sfida del secolo” come ha detto l’ex candidato democratico alla presidenza americana John Kerry, ora ambasciatore di Biden per l’emergenza climatica. Ma alcuni atteggiamenti di chiusura dei grandi attori sulla scena mondiale non fanno ben sperare. L’assenza dei leader di Mosca e Pechino alle ultime riunioni del G20, nonostante gli sforzi del governo italiano per coinvolgerli, è un pessimo segnale. C’è qualcosa peggio del “bla bla bla” temuto dai giovani paladini dell’ambiente. Ed è il menefreghismo, la politica della sedia vuota e del rinvio.