Nel nostro modo di guardare gli edifici, in modo del tutto naturale ma il più delle volte incosciente, senza rendercene conto, impostiamo direttrici di visuale e allineamenti, creiamo sensazioni di dominio sullo spazio, e quindi illusioni di dominio sul futuro. La Storia dell’Arte e la Storia dell’Architettura ci parlano spesso anche di
vittime, delle case e dei monumenti che col tempo divergono dai nostri ideali e si trasformano in oggetti non più amati, che dovranno essere sostituiti dai nuovi elementi del nostro spettro del gusto, da nuovi stili dettati dalle nuove esigenze di cui prima non sentivamo la necessità. Se riflettiamo dobbiamo considerare che la diversità degli stili architettonici riflette in modo naturale la varietà dei nostri bisogni interiori. Possiamo sentirci attratti in periodi e modi diversi dagli stili che ci vengono suggeriti dalle sensazioni che agitano la nostra esistenza. Stendhal ci ricorda che «Ci sono tanti stili di bellezza quante visioni della felicità». Rispettiamo uno stile in grado di distrarci dalle preoccupazioni o dalla noia o di proteggerci da ciò che temiamo, o che sappia indirizzarci verso ciò che desideriamo, che riesca a mostrarci l’equilibrio tra le nostre paure e le nostre certezze.
Quando nasciamo entriamo in un mondo non equilibrato, e da subito proviamo alterne sensazioni, di felicità e delusione, di allegria e stanchezza, e quando cresciamo impariamo che la sopravvivenza è un equilibrio instabile in mari sempre mossi di emozioni conflittuali e contrastanti. Le professioni che intraprendiamo da grandi ci insegnano ad acquisire e ad usare capacità ed abilità ma ci accorgiamo di quanto sapere ci rimane inesplorato. Le nostre scelte stilistiche spesso inconsciamente ci indirizzano e ci indicano spesso ciò che ci manca o che vorremmo soddisfare, a seconda dei periodi che stiamo vivendo. E sentiamo il bisogno di costruire, un bisogno che a volte sembra dominato dal nostro desiderio di comunicare o di commemorare, di esprimerci, con espressioni più o meno sincere, di manifestare con il linguaggio dei colori, dei materiali e degli oggetti, l’ambizione di mostrare agli altri chi siamo e come vorremmo che sia il nostro modo di vivere.
E più un’opera è perfetta più mette in risalto la mediocrità che la circonda, e ci ricorda come vorremmo che fossero migliori le cose e quanto siamo limitati.
Qui si impone il compito dell’architettura personalizzata: deve riuscire ad aiutare il committente ad esaltare i lati migliori della propria personalità, a stimolare la sua sensibilità e la sua capacità a reagire positivamente a un’idea o a un’opera. Per questi scopi già dall’antichità, e ancor più dal tempo di Palladio in poi, la creazione di case che riflettano gli ideali dei proprietari è sempre stata l’ambizione dei migliori Architetti. Una grande opera architettonica ci parlerà di forza ma anche di serenità, di equilibrio e grazia, e ci commuoverà sia da creatori che da spettatori o fruitori, e il nostro rispetto crescerà nella misura di quanto quell’opera ci sembrerà fatta per migliorare la realtà. E quando gli edifici parlano non lo fanno con un‘unica voce, ma in una composizione corale che può dare belle consonanze o cacofoniche dissonanze. A volte tutto si fonde in un contributo logico, altre volte le varie parti dell’edificio guardano in direzioni diverse.