La calma con la quale l’Italia, giorni fa, ha inviato alla Commissione europea il Pniec (Piano Ambiente ed Energia) è il segnale di una insufficiente sensibilità su un tema che angoscia milioni di persone. Non solo perché circa 8 milioni di italiani ogni giorno rischiano di morire per eventi climatici estremi, ma perché il primo dovere di uno Stato è di proteggere i propri cittadini. Tra i Paesi europei l’Italia utilizza solo l’1% del PIL( dati di Openpolis)  per scopi ambientali e di tutela del territorio, laddove la media è dello 0,8%. È evidente che non va bene. Sono sempre più numerosi i cittadini che avvertono una certa superficialità nell’affrontare questi temi. La modesta percentuale di PIL comprende, tra l’altro, anche smaltimento rifiuti, trattamento delle acque, tutela della biodiversità, ricerca, riduzione dell’inquinamento. Una lista piuttosto lunga che Eurostat classifica come spesa pubblica per funzione (Classification of the Functions of Government). Poche settimane fa- ricorda sempre Openpolis- l’organizzazione meteorologica mondiale ha stabilito con una probabilità molto alta che nei prossimi 4 anni la superficie terrestre superi il livello di 1,5°C di aumento dai livelli preindustriali. Un quadro particolarmente preoccupante, “dal momento che superare quel livello potrebbe portare a un punto di non ritorno”. Chi deve darsi da fare? La politica, si risponde nelle piazze e da parte delle organizzazioni rappresentative della società.

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Le classi dirigenti governative, però, fanno fatica a gestire processi di questa complessità. Il timore è di lasciare ai capitali privati la difesa del pianeta. Sarebbe un paradosso storico, posto che  il grande capitale è accusato di aver massacrato foreste, usato carbone mortifero, inquinato città, fiumi, mari, ucciso milioni di inermi con la CO2. Piano, però. Prima di cedere la responsabilità a organizzazioni private, banche o gruppi industriali capaci di colmare con i loro tesori il deficit dei governi, la Commissione europea si aspetta una ripresa degli investimenti pubblici diretti. Tutti i programmi che si richiamano al Green Deal hanno obiettivi ambiziosi. Per coglierli non è sufficiente averli approvati nei Parlamenti nazionali con la  certezza dei soldi dell’Ue. Davanti ad eventi climatici che si susseguono a ritmi elevati sarebbe utile che i singoli governi mettessero a disposizione più risorse, anche verso il bilancio comunitario.  L’Eea (European environment agency) in qualche modo se lo augura, ma l’Ente non può tralasciare il fatto che le finanze statali sono malmesse dappertutto. Anche in questo caso vale l’esempio dell’Italia che spende più per le emergenze che per la prevenzione. La spesa ambientale dell’intera Europa, insomma, è bassa. Nel 2021 sono stati spesi 119 miliardi di euro, corrispondente al penultimo ambito di spesa nei bilanci statali. L’Italia non si differenzia, ma se la buona volontà ha un senso, può farsi sentire in Europa. Il governo ci ricorda che è impegnato a cambiare il PNRR, a negoziare il Mes, a favorire la pace in Ucraina, ma potrebbe anche fare uno scatto sulle politiche ambientali. La realtà è molto distante dalla descrizione del Vecchio Continente incamminato sulla buona strada verde. Diversamente da ciò che si augura Daniel Cohn Bendit nell’intervista a Tuttieuropavantitrenta del 20 giugno scorso, la ricandidatura di Ursula Von der Leyen potrebbe segnare una sonora sconfitta elettorale proprio per i modesti risultati sul Green New Deal. Nelle istituzioni europee c’è  bisogno di più serietà su temi che riguardano la sopravvivenza stessa di una Unione fra Stati. È andata bene finora la moneta unica, ma tra le tante incompiute bisogna mettersi al lavoro con determinazione per un’autentica ed unica politica ambientale. Non sarà facile nel nuovo Parlamento mentre il tempo per recuperare si assottiglia. I governi  in fondo poi passano. Per questa ragione quello italiano può aumentare ora nel 2023 la spesa green nel PIL  e avere più credibilità tra i 27. Sempre che lo voglia.