Il 9 maggio 1950 Robert Schuman tenne il suo celebre appello per un’Europa di Stati fratelli.

«L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto» e ancora, riferendosi alla C.E.C.A., essa «costituirà il primo nucleo di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».

Robert Schuman in un’immagine del 1958 di Joop van Bilsen, Wikimedia Commons

Elementi del discorso, fondativi dell’Europa, erano la pace, dopo le contrapposizioni della guerra, la solidarietà, conseguenza della giustizia, l’unità in una federazione sovranazionale, le realizzazioni comuni, frutto dell’unità d’intenti. Quanto rimane oggi di quella visione ideale del nostro continente?

Pochi anni prima, in uno scritto del 1945, Luigi Einaudi, riprendendo una lettera inviata nel 1918, alla vigilia della nascita della Società delle Nazioni, ad Albertini, direttore del Corriere della Sera, aveva ammonito: «Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra che segni la fine d’Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l’idea federale».

Lo scoppio di una nuova guerra non si è realizzato, mentre dalle ceneri del secondo conflitto mondiale sarebbe emersa quella coscienza della necessità di un’Europa federale che Schuman enuncerà con vigore nel discorso del 1950.

Sul confronto di queste due visioni, confederazione e federazione, si sarebbe giocata l’evoluzione della costruzione europea, soprattutto quando la Francia di De Gaulle, anti-atlantista e favorevole a un avvicinamento all’URSS e a una collaborazione paritaria con gli Stati Uniti, scelse la via di un’Europa europea, un’Europa terzaforzista rispetto ai due blocchi, un’Europa delle Nazioni «dall’Atlantico agli Urali», segnando almeno all’inizio un deciso rallentamento della via federale.

L’azione politica di De Gaulle è stata vista da molti come l’antitesi della costruzione europea, ma a distanza di anni dovremmo forse comprenderne in modo meno sbrigativo i tratti essenziali: un’idea di Europa con una comune identità e non subalterna, consapevole della propria indipendenza economica e militare e dell’evidenza che la contrapposizione tra Est e Ovest costituiva la maggiore minaccia alla pace non era forse un fattore necessario?

Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea, Bruxelles, foto di Christian Lue, Unsplash

Gli eventi successivi ai Trattati di Roma fino all’unione monetaria avrebbero infatti dimostrato la forza ma anche la debolezza dell’architettura europea nel suo legame esclusivo con la potenza americana e in parallelo con un’evoluzione dell’economia liberale che avrebbe segnato le scelte politico-strategiche del continente soprattutto dopo il crollo del comunismo.

Nel 1960, tre anni dopo i Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea (fondatori Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda, e Lussemburgo), veniva creata l’Associazione Europea di Libero Scambio (fondatori Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito), più vicina ai valori dell’atlantismo, poi, con l’ingresso nel 1972 di Regno Unito e Danimarca nella CEE, coincidenti con quelli europei.

Il vuoto creatosi all’indomani del 1989 segnò di fatto l’emergere di un nuovo equilibrio, un nuovo ordine imperniato sugli interessi di élite transnazionali che non avrebbero fatto mistero di voler assumere un controllo più attivo dell’economia e, attraverso la propria costante attività lobbistica, un ruolo anche nelle organizzazioni internazionali fino ad acquistare un’influenza politica nelle associazioni fra Stati e negli stessi governi.

La sede della Banca Centrale Europea, Francoforte sul Meno, Germania, foto di Mika Baumeister, Unsplash

Venendo alla più recente attualità, la crisi politica e di rappresentanza che ne è derivata, insieme a fenomeni come la globalizzazione, la sfida del terrorismo, la grande recessione del 2007-2013 e le migrazioni, confermando la fine dell’ordine internazionale nato nel secondo dopoguerra, hanno favorito, sia nel nostro continente sia negli Stati Uniti, la rivolta elettorale dei ceti medi impoveriti e la sfiducia nel sistema politico. Un sistema che è stato giudicato incapace di contrastare le disuguaglianze mettendo un freno alla finanziarizzazione e di ridefinire i criteri di sviluppo oggi sempre più collegati agli obiettivi dei gruppi economici dominanti e lontani dalle aspirazioni della società.

In questa cornice anche le istituzioni comunitarie, accusate di verticismo per la lentezza dell’azione riformatrice e quindi di essere allineate sulla difesa dello status quo in un’Europa spesso a due o più velocità, si sono dimostrate incapaci di governare con efficacia un’Unione più complessa – anche per l’allargamento a Est – e non hanno saputo evitare le spinte centrifughe se non addirittura disgregatrici come la fuoriuscita del Regno Unito.

La frattura tra Unione Europea e opinioni pubbliche si è così trasformata nell’affermazione dei partiti nazionalisti come reazione al centralismo delle istituzioni comunitarie.

Appare quindi stringente il «Che fare?» dell’unità europea. Dopo l’uscita di scena di De Gaulle nel 1969 il processo di integrazione aveva ripreso la via federalista, sia pure con una forte connotazione del continente in senso atlantista.

Seduta del Parlamento Europeo, Strasburgo, Francia, Wikimedia Commons

La scelta federalista dovrà certamente trovare il punto di equilibrio, finora assente, e dovrà farlo tenendo conto di alcuni fattori unificanti, antidoto alla disunione europea: nessuno Stato europeo, per quanto influente, potrebbe affrontare da solo problemi complessi come il commercio internazionale, le migrazioni o la questione ambientale; la specificità delle singole Nazioni che ha forgiato l’identità europea dovrebbe essere considerata una ricchezza per tutto il continente e la base per un’autentica integrazione di chi ancora europeo non è; l’urgenza di una trasformazione pienamente democratica delle istituzioni europee; la necessità di un’Europa saldamente legata ai valori occidentali e allo stesso tempo indipendente nelle scelte politiche ed economiche non solo sulla scena europea ma anche in quella internazionale e dotata di una sua capacità di difesa; l’opportunità di una maggiore apertura a est, in qualche modo già segnata dal recente allargamento agli Stati dell’ex cortina di ferro; una riforma della zona dell’euro basata su un unico bilancio per sostenere gli investimenti produttivi e gestire le politiche comuni anche con ricorso al mercato finanziario, in senso non punitivo ma solidaristico.

Immagine di apertura: Ponte di Øresund dal versante svedese, foto di Ben Wicks, Unsplash