paura non abbiamo
per amor dei nostri figli
per amor dei nostri figli
sebben che siamo donne
paura non abbiamo
per amor dei nostri figli
in lega ci mettiamo.

Inizia così il canto delle mondine, datato tra fine 800 e il 1914, cantato in tutta la Val Padana, dal mantovano fino al ferrarese e rovigotto, poi entrato stabilmente nel repertorio delle mondine. L’autore del testo e della musica è anonimo, ci sono delle varianti, ma si stabilizza nell’uso a metà degli anni 60. Poi cantato nei decenni successivi in tante manifestazioni di protesta e di rivendicazione dei diritti delle donne. Come per la prima versione del testo di “Bella ciao”, cantato, creato dalle mondine stesse, interpretando e dando voce alle loro tribolazioni e umiliazioni, nel fango e col freddo per una paga da miseria. E come non ricordare “Sciur padrun da li beli braghi bianchi”, questa legata alle risaie del novarese e vercellese, stesso periodo storico.

Foto di Jacqueline Vodoz – Mondine al lavoro a Rosate (Milano) 1954 da https://commons.wikimedia.org

La Lega è quasi sempre cantata da donne: la prima canzone di lotta proletaria al femminile. I precedenti canti di filanda e di risaia, tesi a sopportare la fatica ed a esprimere la rabbia, si riferivano a lamentare o a denunciare pesanti condizioni di lavoro e paghe irrisorie, ma è la prima volta che si canta ”paura non abbiamo”. Mondine (o mondariso) erano chiamate, la storia ci dice che sono state un movimento sindacale importantissimo: hanno lottato, pur lavorando ore e ore piegate su campi di riso, magari lontane da casa, spesso anche malmenate o peggio dagli uomini che le controllavano, per migliorare le condizioni di vita, gli orari di lavoro, il salario, la dignità. Dava loro forza, orgoglio dell’essere donne e coraggio nel chiedere voce, spazio, rispetto. Si trattava di passare da essere figlie o mogli di a persone di sesso femminile e con pari diritti. Sin dagli anni ’80 del 1800 però le donne, specialmente le contadine, avevano combattuto tutte le lotte al fianco dei loro uomini e la Lega è una esplicita testimonianza dell’evoluzione politica della donna lavoratrice. La canzone e alcune scene al riguardo sono inserite nel film “Novecento”, capolavoro di Bernardo Bertolucci. Il concetto lo ritroviamo poi nell’Inno dei lavoratori di Filippo Turati del 1886, che inizia con ”Su fratelli! Su compagne!”.     Sia le mondine piegate in due per ore in ambienti umidi e spesso malsani, le operaie, in fabbrica dietro macchine più grandi di loro, con movimenti ripetitivi, meccanici, dettati da un motore non senziente, che imponeva ritmi e fatica, quelle donne alzavano la testa, fiere della loro essenza e intelligenza, mortificate nel fisico e purtroppo nello spirito, con gli occhi però che sorridevano e scintillavano d’intelligenza, di consapevolezza del loro esser donne. Ancora, in quei decenni di vita dura, non era arrivato il Sessantotto, in quelle parole c’era il desiderio di conquistare una libertà, l’espressione e la fierezza delle idee, la soddisfazione di dar voce al proprio ruolo.

Foto di Alessia Toni – S.Pietro in Casale (BO) – Installazione dedicata alle mondine

Una bella testimonianza di quelle donne si può trovare in una strada di una piccola cittadina, S.Pietro in Casale (BO), in una Italia peraltro povera di statue dedicate alle donne, dove in una rotonda sono raffigurate, intente al lavoro, le bisnonne e le nonne di tante famiglie della zona. E oggi ??? Ma anche ieri…il ruolo della donna per la mentalità maschile, del potere, deve essere sempre rassicurante, sottoposto, incapace di proprie decisioni autonome, forse qualcuno ricorda titoli di giornali in cui c’era scritto che in uno sciopero, una rivendicazione “c’erano anche gruppi di donne”, quale sottolineatura di una eccezionalità, di una anomalia…ma quando mai? Le donne agiscono, si ribellano, parlano? Ancora la mentalità maschile impedisce la libertà di scelta alla donna.

Foto di Alessia Toni – S.Pietro in Casale (BO) – Installazione dedicata alle mondine

E allora facciamo un po’ di storia, un salto indietro nel tempo: il 14 giugno 1913 una folla di 5.000 donne vestite di bianco invade le strade di Londra dietro al feretro di Emily Davison, militante suffragista del movimento Women’s Social and Political Union, morta perché travolta dal cavallo di Re Giorgio V durante dei tumulti. Erano manifestazioni per ottenere il diritto al voto e l’equiparazione politica e civile agli uomini. Qualche anno dopo, durante la prima guerra mondiale, in tutta Europa le rivendicazioni femminili vengono maggiormente ascoltate, ma solo perchè connesse al massiccio ingresso delle donne nelle attività produttive per sostituire gli uomini partiti per il fronte. Il processo di equiparazione ed emancipazione è lento e faticoso. In Italia bisogna attendere febbraio del 1945, con la guerra non ancora finita, perché si deliberi il voto alle donne, ma, ancora con un assurdo, non la eleggibilità delle donne, quindi bisogna attendere il marzo del 1946. Si arriva così al 2 giugno del 1946, in occasione del referendum istituzionale monarchia-repubblica, quando le donne votano per la prima volta e possono essere elette, ma, ancora l’uomo si sente in dovere di dire alle donne come comportarsi: esce sulla stampa la raccomandazione di non usare il rossetto, recandosi alla cabina elettorale, per non accidentalmente imbrattare, umettando, la scheda per incollarla. Bene, me lo devi dire tu uomo…perché io da sola non ci arrivo a capirlo….

In un’epoca in cui sembrava difficile persino schierarsi «controcorrente», la stampa e non solo ci hanno presentato le «streghe» e le loro scelte, in quegli anni 70, lo abbiamo vissuto tutte e tutti, quando tante donne hanno fatto scelte autonome, azioni autonome, non volevano essere chiamate eroine, lo facevano perché avevano fatto una scelta dura, decisa, di libertà, fuori dei canoni, lo si fa perché si è convinti sia una necessità storica, per amore, per la giustizia, per la libertà, assumendosene tutti i rischi e le conseguenze. A tanto si arriva quando tutti i diritti, anche più elementari, sono negati. E negli anni 70, «Sebben che siamo donne paura non abbiamo…!» cantata per strade e cortei, negli anni duri delle contestazioni e rivendicazioni, salariali e di condizioni lavorative in tutta Italia, con le donne all’inizio dei cortei. Ce ne è voluta di strada per approvare, fra forti divisioni, la legge che introduce e disciplina il divorzio. Poi nel 1975, dopo tantissime pressioni, più della società che dei partiti, la riforma del Diritto di famiglia, che introduceva nuove tutele e norme, come l’eguaglianza fra i coniugi, la responsabilità condivisa sui figli e l’abbassamento a 18 anni della maggiore età. Fino alla occupazione di un palazzo nobile a Via del Governo Vecchio a Roma, fine 1976, per trovare un luogo dove riunirsi e parlare e soprattutto rivendicare e agire, sentirlo come Casa, la Casa delle Donne. Io c’ero, in quell’inizio di autunno, a ventidue anni e cercai di aiutare e partecipare.

Arriviamo al 1978, quando dopo un impegno enorme da parte dei movimenti femministi, il Parlamento varava la legge che depenalizzava e disciplinava l’aborto. In ultimo, senza dimenticare che questo substrato mentale, quanto mai immobile e lentissimo nel cambiamento considerava, ancora nel 1975, nel codice penale italiano, lecito da parte del coniuge, fare uso di “mezzi di correzione” nei confronti della moglie, ovvero usarle violenza, e poi se pensiamo che si è dovuti arrivare al 1996, per considerare lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale. Ovviamente senza dimenticare i femminicidi, piaga antica e odierna di una parte deviata di questa società maschile e “Los zapatos rojos”.

E siamo ad oggi, è l’8 marzo, la “Festa della donna”, una volta l’anno, come fosse un vegetale o animale a rischio estinzione…No!

Che l’8 marzo duri 365 giorni l’anno e per tutta la vita deve essere l’imperativo categorico per tutti gli uomini, che si ritengano degni di essere chiamati uomini.

 

Alessandro Coluccelli

Foto di apertura da https://commons.wikimedia.org