La Croce e il sorriso. Quello di Irina e di Albina, che si guardano e non parlano, all’ombra del Colosseo. È l’immagine che resterà di questo venerdì di Passione. Bellissima, struggente, più forte delle polemiche che hanno accompagnato la scelta di affiancare una donna ucraina e una russa, alla penultima stazione della Via Crucis.

Papa Francesco non ha ceduto alle pressioni, arrivate soprattutto dai cattolici ucraini. E a qualche velata minaccia. Ha confermato la presenza delle due donne, ma ha chiesto di modificare la scaletta, e di non leggere la meditazione preparata per quella stazione. Le parole, si sa, possono prestarsi a equivoci, il silenzio no.

Un silenzio carico di emozioni, che ha assunto un significato fortissimo. Ciascuno lo ha riempito con le proprie intenzioni, con la propria sensibilità. Alla fine l’unica parola è toccata al Papa. Una preghiera, quasi un grido: «Disarma la mano alzata del fratello contro il fratello».

«La pace di Gesù non è mai una pace armata» aveva spiegato il giorno prima, citando le parole di Dostojevskij. «Le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono. E l’amore verso il prossimo».

L’incontro fra Irina e Albina, che si conoscono e lavorano come infermiere in un ospedale romano, è stato semplicemente questo: un atto d’amore e un momento di preghiera. Nessuna volontà di mettere sullo stesso piano carnefici e vittime, aggressore ed aggredito. Ma un gesto di speranza.

L’abbraccio di due donne, ai piedi della Croce. Una moderna, tragica raffigurazione della Pietà, nel mondo sconvolto dalla guerra. «Scandalosamente profetico» ha scritto padre Antonio Spadaro. «Un segno profetico, mentre le tenebre sono fitte».

Parole importanti, quelle dell’ex direttore della Civiltà Cattolica. Perché la diffidenza e i timori non sono del tutto ingiustificati. C’è il rischio che dilaghi un pacifismo buonista, che annulla le differenze e cancella le responsabilità. Che sventola solo le bandiere della pace e dimentica in un cassetto quelle dell’Ucraina.

Ogni gesto simbolico, ogni iniziativa di pace, dovrebbe rispettare sempre le diverse sensibilità. E gli esempi si moltiplicano. Come Irina e Albina anche Sofia e Anna, due cantanti liriche che studiano al conservatorio di Santa Cecilia, hanno emozionato nella settimana di Pasqua gli spettatori del musical Jesus Christ Superstar.

Nel fortunato allestimento di Massimo Romeo Piparo, con l’interprete originale Ted Neeley (78 anni!), quest’anno è Sofia Chajka, ucraina, a interpretare Maria Maddalena. Ma quando intona la celebre Could we start again, le si affianca l’amica Anna Koshkina. Spuntano due bandiere, ucraina e russa, il pubblico si commuove: «This is just a Dream…We ought to call a halt, so Could we start again please?»

Sofia e Anna avevano già intonato insieme l’Ave Verum di Mozart nell’aula della Camera, durante l’iniziativa “Montecitorio a porte aperte”. E la sera di Pasqua anche l’ucraina Eva Dorofeeva e la russa Ljudmilla Chepurnaia hanno cantato insieme lo Stabat Mater di Pergolesi, nella basilica romana di S. Andrea della Valle. È la musica che unisce. È un grido di pace che sfida il frastuono delle bombe.

Quanto sia importante l’arte, anche nel pieno di una guerra, lo testimonia l’iniziativa “Peace of Art”. Un museo on line, che consente una visita virtuale delle opere che fanno parte del patrimonio culturale ucraino, e ora messe in sicurezza. Come il celebre Cristo di Leopoli, che era custodito nella cattedrale di rito armeno. Ci sono anche un Caravaggio e un Guercino fra le opere che provengono dai musei di Kiev, Odessa e Leopoli, ora accolte nel metaverso grazie al progetto di Skylab Studios e Road to green 2020, visitabile all’indirizzo www.peaceofart.it

Reale e non virtuale sarà invece la Piazza Ucraina, visitabile fino al 27 novembre alla Biennale d’arte di Venezia. Uno spazio aperto, realizzato all’esedra dei Giardini dall’architetta Dana Kosmina e dedicato a iniziative di solidarietà con gli artisti ucraini.