Il libro scritto dalla presidente Adelaide Amendola (Novecento editore, 2021) si intitola “Romanzo familiare”; ritengo, secondo il mio modesto parere, questo titolo perfetto perché l’autrice descrive la storia nonché le vicende della sua famiglia nella prima parte della sua vita che si svolge in un paese del Sud d’Italia.

Il lettore, però, potrebbe domandarsi perché scrivere una storia di famiglia? Per lasciare una testimonianza di un mondo che non c’è più? O perché ripercorrendo un pezzo di vita, si vuole trovare conforto in una storia ormai finita? Nel leggere il volume della presidente ci si ritroverà catapultati in un mondo che effettivamente in parte non c’è più, ma che ha rappresentato la realtà culturale del Meridione per generazioni; in questo particolare contesto i legami parentali e quelli amicali sono indissolubili e vanno oltre al semplice affetto perché trovano le sue radici nei rituali di rispetto e di obbligata salvaguardia delle apparenze, come fossero dei protocolli indiscutibili.

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Un mondo in cui gli uomini sono figure forti, ma in realtà sono proprio le donne con la loro capacità di tessere relazioni le fautrici di molti accadimenti. E sono proprio le donne, le figure di rilievo del romanzo. Il legame conflittuale tra l’autrice, che si identifica con la protagonista, e sua madre si snoda per tutto il libro e permette di conoscere una realtà articolata e complessa. Sono ben evidenziati sia il non legame della madre con la sua famiglia nativa sia i diversi rapporti che intreccia con i cognati, con i figliocci e le figliocce, con la servitù, con i negozianti e con i vicini, ma soprattutto il suo ruolo di moglie e madre costituiscono l’impalcatura su cui si “regge” il romanzo.

L’autrice descrive questo mondo con la penna acuta di una giurista di rilievo, i dettagli e i personaggi sono rappresentati con una tale peculiarità che si potrebbe dire che solo chi è “abituato” alla costante analisi dei fatti per trarne delle conclusioni, come lo è un giudice, è in grado di fare.

Non a caso la collana “Versus – giuristi raccontano” di cui fa parte il volume è dedicato ai giuristi scrittori. Effettivamente la prosa del romanzo è così particolare da affascinare. Si entra in un angolo di mondo e sembra di viverci. Allo stesso tempo la protagonista nel descrivere i vari avvenimenti sottolinea come non si riconosca più in quel mondo anzi a dire il vero quel mondo gli è sempre stato stretto. Forse perché fatto solo di apparenze, forse perché, come si è detto, il rapporto con la propria madre non è sereno anzi è in contrapposizione.

Foto di Esther Ann da Unsplash

Ma la descrizione di tutti quei personaggi ci sorprende perché riconoscendo che sono veramente esistiti, è ovvio domandarsi se ognuno di noi non abbia della propria vita da scrivere un romanzo. Perché non lo si fa? La domanda è pleonastica, non tutti nasciamo scrittori, non tutti abbiamo la capacità descrittiva, di memoria e di analisi dell’autrice. La differenza consiste nel sapere “padroneggiare” la penna, un’abilità che non è di tutti, ma soprattutto nel trarre delle conclusioni su questo “pezzo” di storia familiare.

Infatti solo alla fine del libro, il lettore capirà anche perché la scrittrice ha desiderato raccogliere i suoi pensieri e le sue esperienze, perché una parte di sé è stata “inghiottita” in quel mondo e lei non vuole però dimenticare, nonostante la sofferenza di quel periodo. L’autrice offre una nuova lettura di quei codici e di quegli stereotipi, tanto rispettati, e dimostra che forse la realtà è ben lontana dalla semplice affettività.

Proprio per questo, invito il lettore ad arrivare alla fine del volume perché, lette le conclusioni, sarà grato alla presidente Adelaide Amendola di averlo reso partecipe di questa sua storia e di offrire una spiegazione diversa sull’origine di tutti questi codici e stereotipi in essere, proprio in quel Meridione da cui molti di noi proveniamo o di cui abbiamo letto o spesso dibattuto. Grazie, presidente!