Non doveva e non poteva essere il luogo di un’ennesima carneficina o di una squallida riedizione romantica di Fort Alamo. E così non è stato almeno finora e ad esodo ancora incorso.

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Ma ciò non sta avvenendo non per un atto di generosità di Putin e di realismo di Zelensky. Messa da parte l’ingombrante identità del contingente AZOV e con essa la delirante finalità della denazificazione dell’Ucraina, Mosca ha privilegiato una soluzione, negoziata con Kiev, che desse una sorta di segnale di riconoscimento dell’autoproclamata repubblica di Donetsk alle cui forze armate sono stati consegnati i militari ucraini che si sono arresi. Zelensky, dal canto suo, ha scelto il male minore in omaggio al principio che “gli eroi servono vivi” e alla necessità di non assumersi la responsabilità di spezzare l’esile filo dei contatti con la Russia. Adesso attendiamo che l’operazione si concluda, tenendo conto del fatto che quel filo ha fatto di Mariupol il tristo simbolo di una guerra civile che dura da 8 anni, che ha fatto oltre 14mila morti; una guerra andata avanti nel Donbass nell’inerzia di quello stesso Occidente che l’ha mantenuta durante tutto l’autunno scorso quando ha potuto seguire quasi in diretta la minacciosa concentrazione di truppe russe al confine dell’Ucraina e gli avvertimenti che venivano d’oltre oceano; inerzia che per di è stata insaporita da un’invariata continuità dei rapporti complessivi, in particolare europei, con la Russia.

La storia non si fa con i “se” ma è lecito osservare che forse si sarebbe potuto reagire in qualche modo alla minacciosa dimostrazione di forza della Russia. Forse si sarebbe potuto tener conto dei precedenti, in particolare dell’annessione della Crimea; si sarebbe potuto fare il punto con Francia e Germania, cofirmatarie assieme a Ucraina e Russia degli Accordi di Minsk soprattutto per quanto riguardava la prevista concessione di una speciale autonomia alla regione del Donbass. Ci si poteva ricordare dell’eccidio di Odessa. Si sarebbe anche potuto interloquire con Putin la cui mala fede nel presentare quella massiccia concentrazione armata al confine quale una “esercitazione militare” saltava agli occhi.

I seguiti li abbiamo visti e ascoltati in diretta televisiva e radiofonica; in particolare della manovra a tenaglia dell’esercito russo sull’intero territorio ucraino nella supposta aspettativa moscovita di un’accoglienza popolare talmente forte da provocare la caduta del Presidente Zelensky e, in ogni caso, di un agevole soverchiamento delle forze armate ucraine. Operazione che non solo non è riuscita ma che anzi ha rivelato un’insospettata (allora, quando poco si sapeva del sostegno militare in atto da tempo da parte occidentale) capacità di resistenza ucraina. È ben riuscita invece la risposta data dall’Occidente alla pressante richiesta di armi e relativi assetti avanzata da parte di Kiev; risposta sollecitata dal disgusto suscitato dall’aggressione ma comunque attenta a non fare di quella guerra il propellente di un ben più ampio e temibile conflitto. Da qui la scelta della “opzione sanzioni” assortito dal diniego di atti che potessero essere interpretati come co-belligeranza. Da qui anche il rifiuto di assicurare una” no-fly-zone” a protezione dall’aviazione russa anche se col tempo la sua assenza sarebbe stata superata da un equivalente meccanismo digitale.

Sin dall’inizio di questa guerra d’invasione non sono mancati i tentativi volti a propiziare un qualsivoglia dialogo fra le due parti – e soprattutto con Mosca – ma senza alcun risultato apprezzabile malgrado la pluralità di attori e figuranti che si sono andati affacciando sullo scenario di questa temibile e dolorosa vicenda, da Tel Aviv a Istanbul, da Parigi a Berlino, a Bruxelles, etc. in una sequenza che ha finito per privilegiare un innalzamento dei toni, soprattutto da parte americana.

Jens Stoltenberg, segretario NATO – Public Domain Mark 1.0.

In questo contesto non si può non ricordare l’inserimento del segretario della NATO la cui loquacità bellicista è risultata poco confacente col suo ruolo e apparentemente sorda alla ben nota “narrativa” russa delle radici del conflitto che, condivisibile o meno, è imperniata proprio sulla minaccia ai propri confini da parte di una NATO in continua espansione ad est malgrado le rassicurazioni ricevute da parte occidentale nel traumatico passaggio dall’URSS alla Federazione russa e alla dissoluzione del Patto di Varsavia.

Ciò che comunque è andato scolpendosi nella mente e nel cuore sono state e sono tuttora le terribili immagini delle vittime civili e delle distruzioni fisiche delle città che i media ci hanno mostrato e che inchiodano Putin. E sia ben chiaro che il ricordare anche le presunte, analoghe   responsabilità dell’Occidente, quasi a bilanciare quella di Putin, è fuorviante.

Penso che in ogni caso stia montando l’aspettativa che quest’orrore si interrompa, che le armi si fermino e che nel loro silenzio si riesca ad identificare le lettere dell’alfabeto di una prospettiva negoziale che identifichi un possibile orizzonte di pace.

Si tratta di un alfabeto di cui a ben vedere si sono scritte le prime lettere. Mariupol ne ha redatte alcune, sebbene ancora non del tutto chiare nei loro possibili seguiti, a cominciare dal voto della Duma e del valore simbolico della AZOV nella narrativa della “denazificazione” richiamata da Putin. Altre le ha scritte Macron nella sua veste di Presidente pro tempore del Consiglio della UE quando ha avanzato la preoccupazione di non “umiliare” Putin. Forse il verbo usato non è stato il più appropriato, visto che è Putin l’aggressore, ma il senso politico della sua preoccupazione è risultato chiaro.

Altre lettere di quell’alfabeto sono venute dall’iniziativa del ministro della difesa degli Stati Uniti – peraltro lo stesso che aveva evocato l’obiettivo dell’indebolimento della Russia – che ha chiamato il suo omologo russo per prospettargli l’esigenza di una tregua; questo almeno è quanto è filtrato. Non molto se si considera che la conversazione sarebbe durata un’ora e che non è chiaro se l’invito alla “tregua” sia stata una sollecitazione o un ammonimento.

Sottolineo quest’aspetto perché nello stesso tempo Biden ha continuato a tenere alta l’asticella del suo impegno militare e sociale a favore dell’Ucraina (nell’ordine dei 40 miliardi di dollari) in un’ottica che peraltro sembra trascendere il conflitto russo-ucraino e muoversi in un’ottica geopolitica ben più ampia, interessante il binomio russo-cinese. Vien da pensare che non vi sia estraneo il già richiamato obiettivo dell’indebolimento della Russia quale uno dei due poli con ambizioni globali antinomiche rispetto a quella occidentale. E vi soccorre al riguardo la Dichiarazione congiunta russo-cinese del 4 febbraio scorso in cui si esplicita con forza un’alternativa al modello di ordine internazionale che si è andato edificando dal dopo-guerra in avanti al traino della leadership americana. In proposito non può sorprendere la telefonata di Biden alle Premier svedese e finlandese per assicurare l’appoggio americano al loro ingresso nella NATO, la sempre viva bestia nera per Putin. E mi interrogo sulla tempestività della richiesta di adesione. Quanto poi al fatto che Erdogan si sia messo di traverso, non deve poi stupire più di tanto se si considera la lotta senza quartiere che egli conduce da anni contro il PKK in patria e all’estero, ma mi chiedo se questo suo intervento a gamba tesa non sia anche collegata alla guerra in Ucraina e all’aspirazione di Ankara di poter riprendere un suo ruolo mediatore.

Per ragioni di spazio posso fare solo un fugace cenno al rischio di ricadute devastanti per i tanti paesi importatori di cereali dall’Ucraina (in primis Egitto, Indonesia, Turchia, Pakistan, Libano, Libia, Tunisia) che la Commissione europea sta cercando di evitare.

Lo stesso dicasi per il doloroso esodo dei rifugiati.

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Ho lasciato un po’ in ombra il tema delle sanzioni che oggi divide l’Europa. Volutamente, perché ritengo che si sia sopravvalutato l’isolamento di Putin nel mondo e del resto, la sua risposta sul pagamento in rubli/dollari o viceversa dovrebbe far riflettere.

Ciò che più conta oggi è comunque il fossato maleodorante di un conflitto i cui protagonisti, dopo le prime lettere di un alfabeto propiziatorio, prima ricordate, appaiono incapaci di trovarne altre in quello che dovrebbe essere il doveroso sforzo mirato a traguardare sia pure a lungo termine un orizzonte di nuova architettura di sicurezza europea. Su cui l’Unione europea sia protagonista, seppure in congiunzione con i partner dell’Alleanza atlantica.

 

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