Premessa.  Il 20 maggio 1950 “Il Mondo” di Mario Pannunzio pubblicava una lettera a sei firme: Corrado Alvaro (fra i fondatori, un anno prima, del giornale), Carlo Levi, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Morra (il conte U. M. di Lavriano, biografo di Piero Gobetti), Toti Scialoja. Oggi possiamo trovarla nell’einaudiano “La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951” di Elsa Morante, che forse l’aveva redatta.

Caro direttore, poche sere or sono, alla presenza di alcuni artisti, scrittori e critici, venne proiettato a Roma, in una piccola sala privata, il film “La terra trema” di Luchino Visconti”, iniziava la lettera, che sintetizzo.  “Ci sembra strano che il pubblico di Roma non deva aver diritto a vedere un film come questo. E che per conoscerlo, come è accaduto ai firmatari di questa lettera, si deva ricorrere a delle proiezioni quasi clandestine. Anche nelle città che si son decise a presentarlo, esso è stato dato in cinema periferici, in giornate morte e senza lanci pubblicitari. A Roma poi tutti i distributori e gestori si sono rifiutati di ospitarlo nelle loro sale. “Fra i firmatari di questa lettera vi è chi, esercitando la critica cinematografica, assiste ogni settimana a vari film, pochissimi dei quali buoni, la maggior parte mediocri e non pochi pessimi. Fra questi ultimi, molti non sono neppure difendibili dal punto di vista commerciale. Ora, mentre si trovano a Roma delle sale disposte a dare al pubblico questa roba, viene sottratta al pubblico l’opera di uno dei primi registi italiani. E ci sembra difficile che si possano dare, a giustificazione di un simile atteggiamento, delle ragioni che non appaiano dei pretesti”.

In giorni in cui la guerra in Ucraina occupa le giornate televisive e il discorso sulla guerra riempie le nostre giornate, esiste una possibilità per il cinema di sviluppare una riflessione più distesa su quanto accade in quella regione d’Europa? Esiste un cinema ucraino sulla guerra? La risposta è sì, esiste. Ma ancora non esce dalla gabbia dei festival e di quelle “proiezioni clandestine” di cui parlava quella lettera.

 

PICCOLA RASSEGNA DI FILM CLANDESTINI

Bad Roads.

Da qualche giorno fioriscono, in rete e sui giornali, le recensioni di “Bad roads”, di Natalya Vorozhbit. Titolo italiano: “Le strade del Donbass”  Si tratta di “quattro storie di derivazione teatrale, ambientate nel 2014, apparentemente separate tra loro, ma unite in realtà dallo stesso eccesso, animate a volte da uno spirito grottesco, gogoliano e, a volte, piene di una violenza evocata dalla parola, dalla voglia di umiliare, di far pesare il proprio potereFrancesco Gallo

Natalya Vorozhbit.

Accolto favorevolmente alla Mostra di Venezia del 2019 (Settimana Internazionale della Critica) e uscito in sala, teoricamente, il 28 aprile scorso, a Roma non si è proprio visto. A chi chiede dove vedere questo film che la critica italiana ha fregiato del titolo di “Film della Critica” consigliandone caldamente la visione, l’ufficio stampa risponde che il film “è attualmente in proiezione in 10 città. Dopo la release iniziale, sarà in distribuzione in streaming in tutti i più comuni canali”. Questa è la recensione di Eugenio Renzi su “Il Manifesto , che già aveva pubblicato, il 5 marzo, una bellissima intervista di Lucrezia Ercolani alla regista : “La guerra c’era da anni ma si guardava altrove

             

Reflection.

Ancora più bizzarra la sorte riservata a “Vidblysk” (“Reflection”) di Valentin Vasyanovych. “Adesso tutti ne parlano come di un capolavoro, un film irrinunciabile alla luce degli eventi ucraini, e va benissimo” –  scrive Michele Anselmi, uno dei suoi primi e più convinti sostenitori, sulla Gazzetta del Mezzogiorno – ma appena il 7 settembre scorso, durante la proiezione per la stampa alla Mostra del cinema di Venezia, piovvero “buu”, insofferenze, addirittura grida di ‘vergogna!’”

“Reflection” di Valentin Vasyanovych

Vidblysk” molto chiede allo spettatore nei suoi 125 minuti: “Lunghe sequenze a inquadratura fissa, frontale, senza campi e controcampi, solo di rado la cinepresa si mette in movimento. Non bastasse, ci sono tempi dilatati, estenuanti, per non dire del feroce realismo, tra torture e umiliazioni, col quale viene restituita l’odissea di un medico militare ucraino catturato dalle milizie filorusse durante la guerra del 2014”. Certo “Reflection” non è una passeggiata “ma si esce dal film disposti a condividere con i protagonisti della storia il lento ritorno a una specie di normalità” (sempre Anselmi su “Cinemonitor”). Segnalato anch’esso dalla critica cinematografica (“Film della Critica”), “Reflection” ha trovato un’uscita, per nulla scontata, il 17 marzo (Wanted Cinema), introdotta da tre anteprime gratuite: il 7 a Roma, il 9 a Milano, il 10 a Venezia. Ma a Roma, dal 17 in poi, il film ha avuto tre proiezioni (Cinema Troisi): lunedì 21, mercoledì 23, martedì 29 marzo. Alle 11 di mattina, all’ora di prima convocazione delle riunioni di condominio. Punto. Anzi, due punti (“abundantis ad abundantium”, Totò)

 

 

Klondike.

Non è ancora arrivato da noi il recentissimo “Klondike” (tutt’ora misterioso il riferimento all’americana valle dell’oro), ma è normale. Il film turco-ucraino di Maryna El Gorbach (uno dei primi del 2022) solo in gennaio è stato presentato al “Sundance Film Festival” di Robert Redford, ricevendo il Premio della Giuria Ecumenica, e poco dopo alla Berlinale (migliore regia nella sezione Panorama). Il racconto di una coppia in attesa di un bambino la cui casa è investita dai relitti del Malaysia Airline 17 abbattuto sui cieli di Donetsk da un missile partito da una fattoria di Pervomais’kyi, in mano allora ai secessionisti, non ha ancora un distributore per il nostro paese ma è solo all’inizio del cammino. Ottimi i riscontri, fra cui questa recensione di Elena Lazic per Cineuropa, dal Sundance.

 

 UN INTELLETTUALE UCRAINO. SERGEJ LOZNICA.

Il 19 marzo scorso, l’Accademia del Cinema Ucraino ha espulso il più importante e famoso dei registi ucraini, il cinquantottenne Sergey Loznycja (Loznica, nella traslitterazione occidentale), autore di “Majdan” –  documento dei 93 giorni di quella protesta repressa con le armi (200 morti) dalle Berkut, le Forze Antisommossa di Janukovyč, sciolte il giorno dopo la fuga del presidente in Russia –  e di “Donbass”, premio migliore regia (“Un certain regard”) a Cannes 2018. Anche questi inediti in Italia.

Se ci fosse (non c’è) un paradigma certificato di un moderno intellettuale europeo, Loznica , nato a Baranavičy in Bielorussia nel 1964, passaporto ucraino, dal 2000 residente in Germania, avrebbe i titoli per corrispondervi. Laureato in ingegneria e matematica al Politecnico di Kiev, giovane genio della cibernetica (studiata, applicata e insegnata per quattro anni nella capitale ucraina), infettato a ventisette anni dal microbo del cinema, si iscrive all’Istituto Statale Pan-russo di Cinematografia (VGIK) di Mosca. Ammesso, si laurea sei anni dopo in regia e produzione col massimo dei voti. Sono gli anni di Eltsin. Nel 2000 arriva Putin e lui cambia aria. Poliglotta (traduce dal giapponese, parla russo, tedesco, inglese, francese e ogni lingua caucasica parlata nell’universo ex-sovietico), si specializza nel documentario e in particolare nella trattazione dei materiali d’archivio – dall’assedio di Leningrado ai campi di concentramento nazisti, ai Gulag – in coppia con un ingegnere del suono (Vladimir Golovnickji), sodale e vero coautore dei suoi film. Il profilo critico più interessante in lingua italiana sul cinema di Loznica emerge dalle venti voci relative ai suoi film (praticamente un saggio di una quarantina di pagine) redatte da Paolo Mereghetti per il suo celebre dizionario.

I funerali di Stalin, Sergej Loznica.

Cosa avrà mai fatto Loznica per essere espulso dall’Accademia del Cinema del suo paese?  Si è dichiarato “cittadino del mondo”, cosmopolita. Se qualche anno fa, alle domande sulla sua identità nazionale (bielorusso, ucraino, russo) rispondeva in pratica: “Quel che vi pare; son vere tutte”, oggi dice: “Sono un cosmopolita”.  Una presa di distanza dal suo paese nel momento più infelice? Niente affatto. Anzi, abituato ad essere bannato dai suoi paesi (in Russia i suoi film sono per lo più vietati) il regista ucraino si è autobannato dall’associazione dei registi europei che assegna gli EFA (gli Oscar Europei).

Lo ha fatto per protesta contro il comunicato di sostegno all’Ucraina – prudente e gesuitico, a suo modo di vedere, ammesso che i gesuiti rientrino nel suo campo di riferimento – emesso dall’associazione. Quella guerra è un’autentica porcheria, una “follia”, e va sostenuto chiaro e forte. Ma escludere i film di produzione russa dagli EFA non migliora le cose, perché “molti amici e colleghi, cineasti russi, hanno preso posizione contro questa folle guerra, sono anche loro vittime di quest’aggressione. Bisognerebbe giudicare le persone in base alle loro azioni e non al loro passaporto.” Affermazione a cui si può obiettare che il provvedimento colpisce le produzioni – in Russia, statali – non i registi russi indipendenti o che producono, come lui, i loro film con capitali internazionali. Non c’entra il passaporto del regista. C’entra quello del film, cioè del produttore; che nel caso di quelli esclusi dagli EFA è la Federazione Russa.

“Maidan” di Sergej Loznica

Ma non sarebbe questo il punto, se la motivazione del provvedimento, letto dalla direttrice dell’Accademia Anna Machukh, non desse alla comprensibile difesa delle ragioni del boicottaggio una carattere delirante: “Fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina abbiamo chiamato la comunità cinematografica mondiale al boicottaggio del cinema russo. Sergey Loznica vi si è pubblicamente opposto, negando la responsabilità collettiva dei russi (“the russians”) per la guerra del loro paese all’Ucraina. (…) Ogni ucraino è oggi un ambasciatore del suo paese e, soprattutto chi è impegnato in attività creative, deve avere una posizione chiara e inequivoca. Loznica ha ripetutamente affermato di considerarsi cosmopolita, cittadino del mondo. Ma oggi, con l’Ucraina strenuamente impegnata a difendere la propria indipendenza, il concetto chiave nella retorica di ogni ucraino deve essere quello dell’identità nazionale”. Replica “sbalordita” del regista: “La connotazione negativa del termine “cosmopolita” risale alla campagna antisemita condotta da Stalin fra il 1948 e il 1953, Esprimendosi contro il sentimento cosmopolita, i membri dell’Accademia Ucraina fanno proprio il linguaggio staliniano di odio e negazione della libertà di parola fondato sull’idea di colpa collettiva, che portò al divieto di ogni manifestazione di individualismo e scelta individuale”. L’accento messo dal documento di espulsione sull’ “identità nazionale” come fondamento di quella personale e artistica, asset ideologico del nazismo, “è un regalo ai propagandisti del Cremlino”. “Mai nella mia vita ho rappresentato una comunità, un gruppo, un’associazione o una ‘sfera’ culturale. Ogni cosa da me detta o fatta è stata e sempre sarà una mia, personale, individuale affermazione o azione”. Conclusione: “sono, e sarò sempre, un regista ucraino”. Accademia o non Accademia.

Ancora sulla lettera del Mondo.

Cosa è cambiato da allora? Niente e tutto. Fermiamoci a due punti.

Primo. In tempo di piattaforme l’esclusione di un film dalle sale non è più inappellabile. Teoricamente. Ma per quanto attiene ai film, nella percezione generale, se un film è uscito al cinema, ne hai visto i manifesti per le strade, le foto sui giornali, i trailer e le chiacchiere in TV, esiste. E puoi, se l’hai perso, recuperarlo in rete. Se non è uscito, non esiste.  Anche per chi sottovaluti il valore in sé della visione in sala, è importante che i buoni film, per non affondare nel mare della produzione digitale corrente, escano; che entrino a far parte del paesaggio urbano, della comunicazione sociale. Promuovere l’uscita in sala dei film migliori è fondamentale, anche per la loro successiva vita in rete.  Ma è anche vero che non si possono proiettare i film alle poltroncine. La fine della pandemia dovrà essere una ripartenza, anche nel rapporto fra autori e pubblico oltre che per distributori ed esercenti.

Secondo, e più specifico, punto. La vittoria della “Kalush Orchestra” all’Eurofestival ha fornito l’assurdo, paradossale pretesto per un ulteriore sfogo di sentimenti antiucraini. Il marziano di Flaiano (non è così nel resto d’Europa), dopo una passeggiata sul web, ne dedurrebbe che sia l’Ucraina ad avere invaso la Russia. Sembra non ci sia più in rete – scomparso qualunque riferimento a Putin (il “pensiero unico” sta diventando quello assente) – alcun limite al manifestarsi di un sentimento di odio, dileggio, disprezzo per il presidente ucraino e il suo paese, visti come l’unico, vero ostacolo alla pace. Burattini degli americani, ridicoli residuati paranazisti: un battaglione Azov di 40 milioni di componenti guidati da un pagliaccio che rifiuta di arrendersi. L’ultimo grido del buon senso ferito, quello di Furio Colombo, si scontra con il livido “sentimento nuevo” che si va affermando nei confronti di quel disgraziato paese (manca il “ben vi sta”, ma è questione di giorni), censurato in ogni aspetto, persino nella scelta (per un festival ultrapop!) di un’allegra sarabanda musicale. “Sarebbe stato più dignitoso il silenzio del lutto”, uno dei commenti più pensosi. “Ridono, anche, gli stronzi”, la linea dominante.

Non vogliamo indagare” – scrivevano i firmatari di quella lettera – sulle ragioni che possono aver indotto gli esercenti romani a rifiutare “La terra trema” (che, ricordo, è una versione cinematografica dei “Malavoglia”). Scrivendo “prevediamo già le loro risposte”, si riferivano alla dura sostanza estetica (prima ancora che politica) di quel film, girato in dialetto messinese con veri pescatori di Aci Trezza. Ma non è tanto l’estremismo linguistico, che pure caratterizza un paio di questi film, ad opporsi oggi al loro accoglimento in sala. C’è altro, purtroppo.

 

“Donbass” di Sergej Loznica

Nel suo articolo sulla “GdM” (“Quel film travolto dall’odio filorusso: Anselmi fa una breve rassegna di alcuni commenti raccolti in rete dalla sua recensione e dall’annunciata uscita in sala di “Reflection” (poi ridicolizzata, come detto sopra). “Un film che si annuncia fascio fino al midollo”, “Un ignobile film di propaganda”, “Spero che nessuno vada a vederlo” eccetera. Molti gli impubblicabili. Spira un’aria di minaccia su questi film ucraini, con argomenti che sposano in toto la propaganda del Cremlino. Con effetti curiosi. I pochi cinema che stanno proiettando “Bad roads ” – non più di uno per città, e a scacchiera – si trovano in Emilia, Toscana, Umbria e in alcune roccaforti del nord considerate politicamente “sicure”: Genova (“repubblicana di cuore”, Guccini), Torino, Brescia, Padova e, solo da due giorni, Milano.

C’è ancora in giro una sinistra che prova a fare il suo mestiere. A tre settimane dall’uscita ufficiale, a Roma e in tutta l’Italia meridionale, gli esercenti continuano a rifiutarlo, temendo tempeste. Già tre cinema romani lo hanno richiesto, dice l’ufficio stampa della “Trent”, annullando la richiesta a ridosso dell’uscita prevista. (Ma mentre mando l’articolo giunge l’annuncio dell’uscita romana del film, da giovedì 19 p.v. al cinema “dei Piccoli”, il graziosissimo cinemino – 70 posti – di Villa Borghese di fianco alla Casa del Cinema. Timida, ma non offensiva. “Fusse che fusse la vorta bbona”, diceva il barista di Ceccano)