EMMA

In un’altra parte del sito trovate un mio articolo recensione sul “Signore delle formiche” di Gianni Amelio. Sollecitato a scrivere qualcosa di politico, parto da lì. Da un film politico.

Come tutti, neanche questo film mantiene, per tutta la sua durata l’intensità delle sue scene madri, e questo è ovvio. Un’opera lirica non è fatta solo di romanze. Ci sono scene e sequenze che portano avanti la storia e nascondono qualche insidia. Quella davanti al Palazzaccio collega il dentro e il fuori del processo. “Abbiamo una lista di firme lunga un chilometro” urla al megafono Graziella (Sara Serraiocco), la pugnace cugina del giornalista dell’Unità (Elio Germano) i cui articoli (non particolarmente amati al giornale e visti con sospetto da un direttore che ci mette le mani) stanno facendo luce sul processo. Ad ascoltarla pochi giovani che scandiscono slogan in stile ’68. La “lista” citata non era lunga un chilometro. Ci furono difese dell’imputato carismatiche e fondamentali (Moravia, Pasolini, Eco, Bellocchio, Bene, ecc.) Ma non oltre il circolo di una cultura d’élite e i giovani non si mobilitarono. Diciamola tutta: la solidarietà intellettuale non diventò popolare, nè politica. Per usare due categorie pasoliniane (“Le ceneri di Gramsci”), l'”astratto amore” (voltairiano, intellettuale, per lo stimato collega), non divenne mai “accorante simpatia”.

Aldo Braibanti – anni 70 – Foto pubblico dominio da wikipedia.org

Braibanti, a quanto è dato di sapere molto diverso dal Lo Cascio del film (ma quella è arte), non era simpatico, e il motivo per cui si trovava alla sbarra lo era ancora meno. Prendersela con la storia è come bruciare i calendari. Così fu. I più illuminati erano disposti a mobilitarsi volentieri per le sue buone ragioni giuridiche e giudiziarie (qualcuno dovette sentirsi probabilmente a rischio pure lui), ma niente di più. Gli slogan ritmati che avrebbero invaso le piazze l’anno dopo (il nostro ’68 fu il ’69, astenersi battutisti) non ci furono. E le manifestazioni furono come quella sparuta del film, animate quasi esclusivamente dai radicali di Marco Pannella. Questo spiega due scelte del film: una strutturale e una sentimentale. La prima è quella di puntare, con il dramma sartriano, alla costruzione di quell'”accorante simpatia” che tutt’ora manca, e che non è la semplice coscienza dell’inviolabilità da parte della legge del campo delle relazioni sentimentali (“Ognuno è libero di fare quello che gli va”, cantava Luigi Tenco). La seconda è rappresentata da quel primo piano di Emma Bonino che contrappunta l’immagine della battagliera Graziella del film. Bonino, che era allora una studentessa universitaria torinese (primo anno), non avrebbe potuto essere lì: solo sette anni dopo avrebbe cominciato a far politica nel PR. Ma di quelle battaglie è oggi l’icona più forte. Se non può essere lei la Sara Serraiocco del film, come suggerisce Amelio, politicamente lo è. E per questo lo stacco su suo volto funziona. “All’immagine di un Pannella morto ho preferito quella di una Bonino viva” ha detto più o meno Amelio. Quel primo piano può sembrare spurio sul piano formale. Ma non sembra stonata questa obiezione nei giorni in cui piangiamo in Godard il maestro che ha fatto dell’irruzione della realtà (delle sue immagini, delle sue icone) nelle trame del cinema il marchio del cinema moderno?  Se fossimo a teatro quel primo piano sarebbe un’immagine proiettata sullo sfondo, e susciterebbe l’applauso. La stessa funzione che ha qui, come ancoraggio alla realtà, come la didascalia che spiega il seguito della storia oltre il film. È la parte per il tutto di una lista di cui non poteva far parte, ma che rappresenta storicamente come nessuno di coloro che vi erano elencati; è un affettuoso omaggio, un bouquet di fiori, un silenzioso invito alla standing ovation dei cuori. C’entra, c’entra. Caspita se c’entra.

“NON UNO DI MENO”

Foto pubblico dominio da commons.wikimedia.org

Altra questione cruciale. Amelio descrive nel film un’ “Unità” che non c’era. O meglio, non era quella. È l’argomento che ha sollevato le maggiori polemiche, anche perché incrocia la delusione perenne a sinistra per il “conservatorismo” del maggior partito della sinistra: da PCI a PD con tutti i passaggi intermedi. Chi adesso rimpiange Berlinguer lo contestava aspramente allora, quando, alla secessione del Manifesto seguì la polverizzazione del gruppettismo. L’hanno già scritto in tanti: il giornale descritto da Amelio è evidentemente L’Unità, ma non è L’Unità. Il suo direttore di allora, Maurizio Ferrara, non somigliava se non nel numero delle orecchie a quello del film, e il giorno della sentenza scrisse un nobilissimo editoriale intitolato “Una sentenza aberrante” (in rete). Chi c’era non ricorda nulla di un giornale come quello del film e una redazione di sentimenti così retrivi (ma su questo anche Amelio si limita ad alludere: la semplificazione drammaturgica impone la riduzione dei personaggi a due – cronista e direttore – e la limitazione della scena al loro conflitto). Ma è vero, e risaputo, che su questo fronte il Grande Partito Popolare, così citato ironicamente nel film, arrivò in ritardo sul tema dei diritti civili. Tutti ricordano l’espulsione di Pasolini, forse neanche l’esempio più clamoroso. Personalmente ho sempre trovato più emblematico il caso Visconti. Una delle glorie del partito in campo culturale, portato in palmo di mano da tutti i suoi rappresentanti più significativi, era senza tessera perché un omosessuale non poteva avere la tessera del partito, per regola non scritta. “Botteghe Oscure addio” di Miriam Mafai – una che dal partito non si è mai davvero allontanata – è un testo capitale sul doppio (triplo, quadruplo) standard del PCI, segnatamente dei suoi capi, in termini di morale, pubblica e privata. Vero, quindi, o quantomeno molto plausibile che il caso Braibanti imbarazzasse il PCI, perché imbarazzava il suo popolo, che non era quello del Partito Radicale. Era molto più grande e differenziato. Probabilmente nessuno in redazione pensava che “le manifestazioni si fanno per il Vietnam, non per gli invertiti!”, come un personaggio del film, ma lo pensavano probabilmente molti comunisti, e cattolici di sinistra – della destra non mi occupo, c’è n’è già abbastanza che lo fanno – e famiglie, cattoliche o meno, per nulla pazzoidi come la fetente madre di quel poveretto del film. Ma è perfettamente plausibile che la faccenda in un giornale di partito apparisse “spinosa”, all’inizio. Lo fu sempre meno e l’attenzione nel tempo (gli articoli ripescati in questi giorni e le testimonianze lo provano) sfociò nell’editoriale di Ferrara e in tutta la “copertura” successiva del caso.

Arrivare agli appuntamenti importanti portandosi dietro tutto il proprio popolo: è questo il compito e la funzione di un partito di massa, e dovrebbero tenerne conto tanto i paladini delle “masse” (ce n’è ancora qualcuno?) quanto gli elitaristi convinti. L’avanguardia non abita qui, l’avanzamento di un paese invece sì. Sono (erano) corpi complessi, i partiti, specie quelli di massa. Strutturati, consolidati sul territorio, con classi dirigenti, contendibilità delle cariche, strumenti di democrazia interna, uomini e idee, congressi. Non conventions, scampagnate a Pontida, Leopolde, piattaforme Rousseau con il comico che intrattiene. Da trent’anni viviamo il dramma dei partiti personali, fluttuanti dal 4 al 30%, e ritorno in due/tre anni; piazzisti di “offerte” politiche, come a scuola c’è l'”offerta formativa”, diversa da un istituto all’altro. Ma portare il proprio popolo (se “non uno di meno” pare, lo è, scioccamente retorico, diciamo quanti più possibile) agli appuntamenti che contano è la prima scommessa di un partito che rappresenta qualcosa più di un’offerta politica. E nel rispetto di un bel film questo bisogna evidentemente ricordare del fare politica. Una politica che non sia offerta di soluzioni alla carta, e neanche intrigo parlamentare con composizione e scomposizione vertiginosa dei gruppi come a “macchiavelli” (il gioco di carte). In Italia di partiti c’è n’è rimasto uno. E poi c’è Emma, con qualcun altro dei suoi, dalla stessa parte. (Oh, volevate un articolo politico -dico a Claudio. Questo lo è).