Il quadro, che quasi quotidianamente emerge da commentatori, analisti, mondo politico, responsabili di enti, istituzioni, fondazioni disegna un Paese che con difficoltà potrebbe far parte del G7, cioè del gruppo delle principali economie avanzate del mondo, del quale il nostro Paese fa parte dal 1976.

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Eppure il nostro PIL procapite è di $ 38.000, un po’ sotto del Regno Unito, $ 39.800 e leggermente sopra a quello del Giappone $ 37.500. Le statistiche che frequentemente comunica l’ISTAT ci vedono spesso agli ultimi posti in Europa soprattutto su occupazione, in particolare giovanile e femminile, livello di istruzione e numero di laureati, 27% contro una media del 40% europea. Dall’altra parte ricordiamo in varie occasioni che siamo dopo la Germania la seconda industria manifatturiera, che il nostro export lo scorso anno ha raggiunto il record di oltre € 520 miliardi e che il risparmio degli Italiani è tra primi in Europa con oltre € 10.000 miliardi tra immobiliare e mobiliare, nonostante un indebitamento dello Stato di oltre € 2.700 miliardi.

Insomma come disse Romano Prodi alcuni anni fa, in base alle statistiche, siamo un Paese povero però abitato da “ricchi”.

Ecco perché bisogna incominciare a “smediare” le statistiche e concentrarsi su dati e informazioni più analitiche per concentrare le risorse che non sono infinite, che ci auguriamo i governi e le amministrazioni regionali e locali, siano in grado rapidamente di progettare e sviluppare. Oltretutto i tempi di realizzazioni di riforme strutturali e progetti esecutivi con il PNRR dovranno essere completati entro il 2026, cioè tra poco più di tre anni.

Partiamo allora dai giovani; è noto che per motivi demografici, la scuola italiana perde ogni anno circa 100.000 studenti e entro il 2030 mancheranno all’appello oltre 1 milione di studentesse e di studenti; nonostante che dei 7,2 milioni di studenti, il 10% sia costituito da figli di immigrati ai quali si continua a negare lo “ius scholae” e che permettono in alcune zone del Paese di tenere aperte le scuole e quindi dare lavoro ai nostri docenti.

Ora il Governo prevede nuove numerose entrate di docenti; ce ne sarà bisogno? Oltretutto è noto che la maggiore carenza delle cattedre, in particolare tecnico scientifiche, è concentrata nelle regioni del nord del paese, mentre la gran parte della provenienza dei docenti, in particolare donne, proviene dal sud.

Che cosa fare? Nelle regioni del sud poche scuole applicano il “tempo continuato”, che oltretutto consentirebbe ai genitori e in particolare alle donne di avere maggiori spazi lavorativi e non solo di part time; quindi destinare questa ampia disponibilità di docenti al tempo continuato nelle scuole, anche nel pomeriggio. Le scuole devono diventare centri culturali sempre aperti.

Dall’altra parte inserire, pur sapendo le difficoltà dei sindacati della scuola, la valutazione e il merito e conseguentemente prevedere sostanziosi aumenti di stipendio, portandoli a livello dei principali paesi europei.

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Perché 160.000 studenti e studentesse provenienti dalle regioni del Sud del Paese vanno a studiare nelle università del Nord e al termine degli studi non fanno ritorno per la gran parte nelle loro regioni d’origine? Non perché gli Atenei del nord siano migliori, ci sono anche al Sud delle eccellenze formative, ma perché i giovani al termine degli studi trovano maggiori opportunità di lavoro. E allora che fare? In seguito anche alla pandemia e alle difficoltà delle catene di approvvigionamento di molti beni durevoli e di largo consumo, molte imprese stanno avviando un rientro delle produzioni nel nostro territorio nazionale; è quello che viene chiamato “reshoring” o “nearshoring”. Il Governo nazionale e quelli Regionali devono rapidamente sviluppare politiche di defiscalizzazione in particolare per le assunzioni di giovani, di incentivi occupazionali e soprattutto di progettazione e completamento di infrastrutture logistiche per far sì che il “reshoring” invece di rientrare nel nord est, che è ormai un “lander tedesco”, sia destinato alle regioni del sud; questo comporterebbe il recupero di occupazione e permetterebbe a molti giovani con buone competenze di trovare lavoro nei loro territori. Non ci possiamo permettere di desertificare il sud del Paese.

Ma siamo sicuri che solo il 50% delle donne lavora? Anche qui è noto che più della metà dei laureati sono donne. Eppure sembrerebbe abbiano difficoltà a trovare il primo lavoro.

Già nelle scuole superiori è necessario un orientamento degli studenti e in particolare delle studentesse verso lauree STEM (Science. Technology, Engineering, Mathematics) e per gli ITS (Istituti tecnici superiori) per i quali si aprono maggiori opportunità lavorative.

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Ma già oggi nel nord del Paese sono occupate circa il 65-70% delle donne, al Sud, sempre secondo le statistiche, solo il 30%. Probabilmente l’ISTAT non tiene conto del lavoro “in nero” e part time non regolamentato. E non credo sia solo un problema di assenza di asili; se così fosse il Governo nazionale dovrà prevedere l’obbligatorietà e gratuità delle scuole materne, come già per le scuole primarie; è probabile che con la riduzione degli studenti e studentesse, molti plessi scolastici nei prossimi anni si liberino: questo già sta accadendo ad esempio nel Veneto, dove in molte scuole primarie e secondarie sono occupate il 70% delle aule disponibili. In alcune zone d’Italia i comuni stanno favorendo la creazione di asili aziendali o interaziendali. Si continua a parlare di disoccupazione, in particolare giovanile; dall’altra parte l’UnionCamere con la piattaforma Excelsior, che raccoglie i dati su offerte di lavoro dei loro associati, mensilmente informa che circa il 30% delle proposte di lavoro non trova figure professionali adeguate o addirittura disponibili a fare i lavori richiesti.

Esiste un pauroso “disallineamento” tra la domanda e offerta di lavoro, che solo l’avvio di politiche attive con la stretta collaborazione tra le agenzie private, che per il momento sono quelle più capillarmente presenti e produttive, e i centri per l’impiego statali, possa ridurre il così detto “mismatch”. Questo consentirebbe anche di ridurre il numero dei NEET, che è tra i più alti in Europa, fenomeno favorito anche da famiglie super protettive che rinviano l’entrata del lavoro dei figli, solo quando trovano un “buon posto”, come cita Luca Ricolfi nel suo saggio “La società signorile di massa”.

Abbiamo tutte le possibilità per essere un grande Paese del G7, capace di dare alla sua popolazione buoni livelli di servizi sanitari, formativi, sociali, una sana economia, favorita dal successo del made in Italy e dalla nostra enorme ricchezza storica e culturale e di far emergere le nostre immense capacità creative. Certo richiede stabilità nei governi nazionali, autorevolezza a livello europeo e grande coordinamento con i governi regionali, che sempre più saranno protagonisti dello sviluppo del Paese.

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