Fra una settimana si celebrerà, come ogni anno dal 2005, il “Giorno della Memoria”, il 27 gennaio, ossia la giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto, meglio della Shoah. Proprio il 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, avanzando nella offensiva dalla Polonia verso la Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, anche se quell’orrore continuò per altri mesi in altri campi in Germania e nei territori occupati.

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Ma siccome la memoria non deve avere né limiti o confini né soprattutto deve avere date fisse, ancora prima di quella data nel 1992 iniziò a Colonia, in Germania, la posa nelle strade e nelle piazze di una installazione denominata “Stolpersteine”, ovvero “pietre d’inciampo”, una idea e creazione dell’artista tedesco Gunter Demnig, per marcare nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee un simbolo della memoria, ovvero il ricordo dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’opera si realizza nell’installare, nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, o da dove furono prelevate nei rastrellamenti, dei blocchetti in pietra, 10 × 10 cm, tipo sampietrino, il classico elemento della pavimentazione stradale di Roma, con una lastra di ottone posta sulla faccia superiore, con inciso il nome della persona, l’anno di nascita, la data, il luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta. Questo nell’ovvia finalità di ridare individualità, immagine di sé, a chi veniva ridotto a un numero tatuato. Il termine “inciampo” si deve dunque intendere non tanto in senso fisico, quanto mentale, di visione, anche se solo immaginata, di chi era lì in chi vi passa vicino e vede l’opera.

In tutta Europa ci sono, ad oggi, circa centomila pietre d’inciampo, in quasi tutti i paesi che furono occupati durante la seconda guerra mondiale dal regime nazista, ma anche in Svizzera e in Spagna e Finlandia.

Va precisato che il termine “pietra di inciampo” è derivata dalla Bibbia e dall’Epistola ai Romani di Paolo di Tarso, dove scrive: “Ecco, io metto in Sion un sasso d’inciampo e una pietra di scandalo; ma chi crede in lui non sarà deluso”. Nella realtà la collocazione non prevede nessuna distinzione di religione o etnia, ma solo il ricordo di chi uscì da quella casa o venne prelevato in quel punto senza farvi più ritorno.

Roma, pietre d’inciampo in ricordo di Laudadio Di Nepi e Silvia Sermoneta, in via Po 162
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Va anche detto, per assurdo che possa sembrare, che negli anni ci sono state numerose iniziative contrarie, anche con l’asportazione delle stesse, spesso in Germania, dove gli abitanti del palazzo erano “infastiditi” dall’osservarle al momento di uscire. La questione ha sollevato accesi dibattiti e controversie, quando ad esempio le “pietre” venivano collocate davanti al portone di ingresso e alcuni proprietari degli immobili non volevano essere costretti con ciò a ricordare ogni giorno le atrocità naziste, dimenticando come in alcune altre città, in quel periodo storico, per dileggio i nazisti usavano le lapidi delle tombe ebree come pavimentazione per i marciapiedi. Anche a Roma ci sono stati casi del genere, soprattutto nel Rione Monti, il più antico e vasto della città e anche in un Rione attiguo al quartiere ebraico, quell’altro termine non l’ho mai usato per l’orrore che crea nel pronunciarlo e nel ricordo di come tutto ebbe inizio. I miei ricordi di bambino, inizi anni 60, quando da Trastevere, dove sono nato e vissuto, sponda destra del Tevere, passavamo fiume con mia madre e mi portava, attraversando l’Isola Tiberina, tenendomi per mano e mi raccontava storie, di nomi, persone, vicoli, angoli di palazzi e portoni.

Via del Portico d’Ottavia 13, “Il portonaccio”, foto di Matilde Baroni, 1990-Foto da wikipedia.org -CC BY-SA 3.0

Siccome però parliamo di “memoria” allora ricordiamolo ai giovani, a chi non c’era e anche a chi l’ha vissuto: userò a malincuore il termine ghetto, che viene utilizzato sin dal sedicesimo secolo e deriva dalla parola veneziano “ghèto“, che significa fonderia, ovvero il luogo dove si “gettava” il metallo incandescente, appunto per fondere e creare manufatti. Tale termine all’inizio indicava però solo il quartiere delle fonderie di Venezia, ma che era anche quello dove si erano stabiliti gli ebrei. Da lì in breve con la parola si indicarono i quartieri abitati, più o meno volontariamente o in maniera coatta, dagli ebrei. Va anche detto che già nel I secolo avanti Cristo i romani mettevano in pratica la segregazione razziale, separando gli ebrei dal resto della popolazione. Il tutto peggiorò con il passare dei secoli, nel frattempo in Italia i ghetti furono decine, da Firenze a Modena, Ferrara, in tutto il Triveneto, ma a Milano no, niente ghetto, perché agli ebrei era vietato risiedere in città. Intorno al 1500 furono loro concessi solo due mestieri, ovvero commerciare stracci e prestare denaro, ma, guarda te!, quest’ultimo perché vietato ai cristiani, vessazioni varie come portare un segno distintivo, assistere alle prediche per farli convertire, addirittura pagare le guardie che a sera chiudevano le porte del ghetto e la mattina le riaprivano. Nel 1555 papa Paolo IV creò infatti il Ghetto di Roma con apposita bolla “Cum nimis absurdum”, che obbligava gli ebrei a risiedere in un’area specifica con anche, se non bastasse, una serie di restrizioni particolari; poi nel 1569 Pio V ordinò agli ebrei di lasciare lo Stato della Chiesa, meno che quelli di Roma, quindi oppressi e obbligati lasciarono terre ed averi e si rifugiarono nei territori fuori dello Stato della Chiesa, spesso confinanti, per questo tante famiglie ebree hanno un cognome di una città o cittadina. L’ultimo ghetto, a Roma, fu abolito nel 1870, dopo la liberazione con l’entrata dei Bersaglieri a Porta Pia, ma ormai insediatisi in quell’area di Roma che costeggia la riva sinistra del Tevere, nel Rione Sant’Angelo, il più piccolo di Roma, il nome rimase a quella area intorno alla Sinagoga. E siccome anche la storia “fa dei giri immensi e poi ritorna”, soprattutto quella brutta, fu soprattutto dal ghetto di Roma che all’alba della mattina del 16 ottobre 1943 le SS iniziarono il rastrellamento degli ebrei romani per deportarli ad Auschwitz.

Allora teniamola sempre in noi questa Memoria, il 27 gennaio e tutto l’anno, soprattutto in questo momento in cui in tante parti del mondo eserciti invasori uccidono, depredano e portano via popolazioni inermi, per non dimenticare mai.

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