Un anno fa, il mondo civilizzato era inorridito nel vedere le conseguenze delle atrocità dell’esercito russo dopo che le Forze armate ucraine avevano liberato la regione di Kiev dall’occupazione. La piccola città di Bucha è diventata un simbolo del terrore russo in Ucraina, e il massacro di Bucha passerà alla storia come uno dei più brutali di questa guerra.

Foto e video del massacro di Bucha sono apparsi il 1° aprile 2022 e il 1° aprile 2023 la Russia ha iniziato la sua presidenza di turno nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (!)… Dopo più di un anno di aggressione militare russa. Più di un anno di crudeltà disumane e crimini di guerra. Un paese aggressore, un paese terrorista presiede un’istituzione internazionale che è responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (!!!). Mi sembra un teatro dell’assurdo, ma purtroppo oggi è una realtà.

In occasione di questo “anniversario dell’orrore”, ho chiesto a Natalya, una residente di Bucha, di condividere la sua storia con i lettori di TUTTI. Una storia che non può lasciare indifferente nessuna persona normale, indipendentemente dalla cittadinanza, dalla nazionalità, dalla religione o anche dalle preferenze politiche.

 Iryna Medved

 

La mattina del 24 febbraio 2022 è iniziata alle 4:30 con una telefonata della mamma. Ha chiesto se da noi andava tutto bene, perché lei a Kyiv aveva sentito delle esplosioni. Ho risposto che qui era tutto tranquillo. Ci eravamo addormentati solo da poco perché la figlia più piccola si era ammalata, aveva la febbre alta ed era rimasta sveglia quasi tutta la notte.

Foto da wikipedia.org – CC BY 4.0

Quando ho riattaccato, ho sentito anche io un suono simile a un’esplosione, poi un altro. Dalla finestra non si vedeva niente perché era ancora buio, ho acceso la TV e ho visto che la Federazione Russa aveva iniziato un’invasione su vasta scala. Ho avuto paura: ero a casa da sola con due bambine piccole, la più piccola, che ha appena 2 anni e mezzo, è malata… Ha iniziato a chiamare mio marito, che faceva il turno di notte in ospedale. La connessione era pessima, ho fatto fatica a raggiungerlo telefonicamente, mi ha detto di raccogliere documenti e cose e di aspettarlo. Non sapeva quando sarebbe arrivato, perché non poteva lasciare i pazienti. Ho svegliato i bambini e li ho portati nella stanza da bagno perché le esplosioni si facevano sempre più forti e vicine. I bambini avevano sonno, piangevano, non capivano cosa stesse succedendo e perché non permettevo loro di uscire dal bagno… Sono iniziate ad arrivare le telefonate di parenti, amici e colleghi. Tutti erano confusi, spaventati e nessuno sapeva cosa fare.

Al farsi del giorno, dalla finestra ho visto colonne nere di fumo e molti elicotteri nemici volteggiare sopra le case. Volavano così bassi che erano visibili i missili che essi trasportavano. Il nostro appartamento era in un condominio e avevo molta paura di rimanerci al nono piano. Ecco perché, quando il fratello di mia madre si è offerto di venire a portarci nel suo cottage, ho accettato: mi sembrava che lì saremo stati più al sicuro. È così che siamo finiti a Bucha in via Yablunska… [via Yablunska è considerata un simbolo del “massacro di Bucha”, le atrocità dell’esercito russo contro la popolazione civile, è qui che è stato trovato il maggior numero di cadaveri civili, è chiamata la “strada della morte”].

Foto dell’autrice

Mi sono subito sistemata in cantina e ci ho fatto scendere i bambini. La figlia più piccola è stata quasi sempre tra le mie braccia, perché la febbre era salita di nuovo, e la più grande (5 anni) continuava a chiedermi: “Mamma! quando torniamo a casa, perché sono venuti i russi ad ucciderci?”. Mio marito è arrivato da Kyiv la sera, insieme alla mia mamma. Il figlio maggiore (19 anni) è rimasto a Kyiv: si era subito arruolato nella difesa territoriale, la TrO. Volevamo andarcene da Bucha, ma i ponti sono stati fatti saltare, l’unica strada su cui potevamo viaggiare era bloccata dai veicoli nemici. Nel villaggio vicino era rimasto l’anziano padre di mio marito. Era stato recentemente dimesso dall’ospedale, dopo aver subito un ictus. Non abbiamo avuto la possibilità di portarlo via, nessuno poteva passare i posti di blocco perché il nemico avanzava da quella parte. Nei primi giorni dell’invasione avevamo ancora internet, elettricità, acqua e gas. Avevamo possibilità di contattare i parenti, leggere le notizie. Si poteva andare al negozio per la spesa perché i negozi erano ancora aperti.

Il 27 febbraio, quando in via Vokzalna (tradotto: via della Stazione) una colonna di veicoli militari nemici è stata distrutta, ci siamo sdraiati sopra i bambini nella cantina, per proteggerli con i nostri corpi da eventuali macerie. Era un rumore assordante, eravamo spaventi, nella cantina c’era un odore persistente di polvere da sparo, gasolio e bruciato. Questa battaglia è avvenuta a circa 500 metri da noi. Quando finalmente tutto si è calmato, dopo qualche tempo abbiamo letto nelle notizie che il nemico allora era stato distrutto. Poi è andata via la luce e, di conseguenza, anche il riscaldamento. Mio marito ed io siamo andati al negozio. Era distrutto. Da sotto le macerie la gente tirava fuori cibo e acqua, siamo riusciti a prendere solo un paio di bottiglie di limonata, non era rimasto più nient’altro…

Alla luce delle candele – Foto dell’autrice

Dopo un po’, anche l’acqua è scomparsa. A causa della mancanza di elettricità, le pompe hanno smesso di funzionare. I bombardamenti si sono intensificati, cercavamo costantemente di far addormentare i bambini in modo che sentissero meno le esplosioni e non avessero paura. Durante i bombardamenti, coprivamo sempre i bambini con non i nostri corpi. Il metano è finito. Era possibile cucinare il cibo solo sul fuoco e i bambini chiedevano costantemente da mangiare. Il 2 marzo è iniziato l’inferno. Non avevamo né luce, né acqua, né riscaldamento, né gas. Incessanti bombardamenti. Ho chiamato il Servizio statale per le emergenze e ho chiesto aiuto: avevamo due bambine piccole e il mio nonno anziano di 87 anni. Mi hanno risposto che Bucha era sotto l’occupazione e, purtroppo, non potevano aiutarci. Sulla nostra strada, su entrambi i lati, sono stati piazzati i punti di blocco. Lungo la strada, a intervalli di 15-20 minuti, viaggiava avanti e indietro una colonna nemica. Un soldato russo era seduto in cima al carro armato con una mitragliatrice e sparava dove gli veniva il ghiribizzo. Se qualcuno dei civili era in strada nel momento in cui stava passando la colonna, veniva fucilato. Venivano colpite allo stesso modo anche le auto di civili che cercavano di andarsene. I vicini che avevano scritto “PERSONE” sul cancello erano certamente destinati ad essere perquisiti, derubati, torturati, e gli uomini venivano rapiti…

Avevamo finito anche l’acqua ad uso tecnico, meno male che nevicava e con la pioggia, e potevamo bere l’acqua della neve sciolta. Il cibo che avevamo era andato a male, ma dovevamo mangiare quello che avevamo. Ogni giorno avevamo sempre meno speranza che saremmo rimasti in vita. I bombardamenti si intensificavano, di tanto in tanto sentivamo degli spari di pistola. Per rassicurarci, ci dicevano che erano i nostri ragazzi a “ripulire” la nostra Bucha dai degenerati russi. Più tardi ci siamo resi conto che i russi stavano sparando a residenti civili che uscivano in cerca di cibo o acqua. Così è stato ucciso il nostro vicino, che era andato a cercare l’acqua per il figlio disabile, e che vicino al nostro cortile è stata colpita un’auto…

La figlia più piccola con la nonna – Foto dell’autrice

Durante i bombardamenti ormai non ci sdraiavamo più sui bambini, perché avevamo capito che in caso di colpo, se i bambini fossero rimasti in vita, sarebbero morti comunque, perché nessuno avrebbe potuto venire ad aiutarli…Il 7 marzo ci sono stati tre colpi in pieno sul nostro cortile. Il soffitto in casa è crollato, le finestre si sono frantumate e le pareti sono state tagliate da frammenti di vetro. Non dimenticherò mai quel terribile fischio, seguito da un’esplosione. La paura era semplicemente paralizzante. Tutto quello che abbiamo fatto è stato abbracciare forte i bambini e pregare che malgrado tutto rimanessero in vita. La sera, quando la situazione si è un po’ calmata, abbiamo deciso di avventurarci e provare ad andarcene, perché era improbabile che saremmo sopravvissuti ad un altro bombardamento del genere. Avevamo scelta: restare e morire o provare ad andarcene e sopravvivere. Così, il 9 marzo, al mattino, noi e nostri vicini abbiamo deciso di scappare. Scappavamo per gli orti, sotto il fuoco, solo con quello che avevamo addosso. Passavamo per i cadaveri degli occupanti, i resti di mezzi nemici, mine anticarro e proiettili inesplosi. Avevamo paura, ma volevamo vivere. Passando per la via Vokzalna, davanti al centro commerciale distrutto “Giraffa”, in cui io e i miei figli eravamo andati in passato al cinema e nella stanza dei giochi per bambini, la figlia maggiore ha pianto molto e ha iniziato a chiedere perché i russi hanno bombardato la stanza dei bambini: c’erano dei bambini là! ci stavano giocando! perché i russi uccidono i bambini? sono piccoli…

Marito e figli in fuga verso la stazione – Foto dell’autrice

Arrivati al posto di blocco a Irpin, quando abbiamo visto i militari e sentito la lingua ucraina, abbiamo capito che erano i nostri soldati ed eravamo relativamente al sicuro! Poi c’è stata un’evacuazione fino al ponte distrutto sul fiume Irpin. Prima, questo poteva essere visto solo nei film. Auto civili crivellate da colpi e bruciate. Erano rimaste in fila lungo tutto il ponte. Le auto sono state colpite col fuoco mirato. E sparavano nelle scritte “Bambini” o “Persone”, e poi con raffiche automatiche orizzontalmente lungo la parte inferiore dell’auto, probabilmente nel caso in cui qualcuno si fosse nascosto nell’auto sul pavimento, quindi per ucciderlo con precisione. In mezzo a queste macchine c’erano molti giornalisti e nostri soldati che stavano aiutando bambini e anziani. Dall’altra parte del fiume ci caricarono su un’ambulanza e ci portarono a Kyiv. Da lì siamo andati nell’ovest dell’Ucraina. Mentre eravamo lì, abbiamo appreso che gli occupanti hanno fatto irruzione nella nostra casa in via Yablunska il 9 marzo nel pomeriggio [cioè lo stesso giorno, ma dopo che l’autrice è fuggita con la sua famiglia]. Hanno sfondato porte, spaccato mobili, rubato giocattoli dei bambini e vestiti, i piatti. Non c’era più nient’altro da prendere, perché avevamo nascosto l’attrezzatura nella cantina, e la cantina era costruita in modo tale sotto casa da non essere visibile. La nostra auto è stata minata, sebbene fosse già stata gravemente danneggiata dalle esplosioni, e sotto l’auto c’erano mine anticarro. Dopo la liberazione della regione abbiamo saputo che anche il padre di mio marito è stato trovato morto nel suo cortile. Dopo l’ictus non poteva camminare (quindi non poteva uscire da solo in cortile), parlava a stento. Non rappresentava alcuna minaccia per gli invasori russi. Non sappiamo nemmeno la data esatta in cui è stato ucciso…

È passato un anno. Siamo tornati a Kyiv. Dopo tutto quello che è accaduto ci fa ancora paura tornare a Bucha. I bambini hanno iniziato a riprendersi solo di recente. Invece prima, durante qualsiasi rumore forte, si mettevano a piangere, si coprivano le orecchie con le mani e cadevano a terra. Ora corrono nel corridoio e chiedono se volano bombe. Spesso ricordano di quando stavano nella cantina…

Vorrei chiedere: da cosa sono venuti a salvarci i russi? Da una vita normale? Dall’infanzia?? Ovunque c’è la russia, c’è morte, distruzione, lacrime e dolore! Gli omicidi sono nel loro sangue. Ci uccidono semplicemente perché siamo Ucraini. Ma siamo forti! Le nostre Forze armate sono le migliori! L’Ucraina vincerà sicuramente! Sono orgogliosa di essere Ucraina! Gloria all’Ucraina!

 

Foto di apertura dell’autrice: il marito di ritorno da Kiev verso Bucha