Economista, due volte Ministro, sempre nel ruolo di tecnico sia nel governo Letta che più recentemente in quello Draghi, docente di statistica e esperto riconosciuto a livello europeo ed internazionale di sostenibilità economica sociale ed ambientale, come ben illustra nel suo libro “L’Utopia sostenibile” (Laterza).

Enrico Giovannini – Foto da wikipedia.org – CC BY 3.0 it

Ed è in virtù di questo suo alto profilo, che abbiamo deciso di rivolgere ad Enrico Giovannini alcune domande che sorgono dal dibattito pubblico intorno al Green Deal della Commissione europea e alle scelte di sostenibilità in relazione al cambiamento climatico.

Come mai secondo lei malgrado gli allarmi sempre più precisi e pressanti degli scienziati persistono invece la prudenza e anche il negazionismo nell’opinione pubblica e nel discorso politico e mediatico?

Cominciamo col dire che l’Unione Europea è l’area più sostenibile del mondo da tutti i punti di vista, economico, sociale, ambientale. Non a caso il concetto di sviluppo sostenibile è presente ben due volte nell’articolo 3 del Trattato dove si definiscono le finalità stesse dell’UE. Quell’articolo 3, che è uno dei frammenti rimasti dalla bozza di Costituzione bocciata dal referendum francese, è uno degli elementi che mi rende fiero di essere europeo. Ma la politica europea non è sempre stata così sensibile a questi temi, anche se ci sono stati, anche in passato, molti provvedimenti legislativi a tutela dell’ambiente, o sulla crescita dell’economia sociale di mercato, o sulla riduzione delle disuguaglianze. Ma i cambiamenti più sostanziali sono avvenuti più recentemente. In primo luogo, con l’avvento della Commissione von der Leyen, quando l’Agenda 2030 è stata messa al centro della politica della nuova Commissione. È stato un passo molto importante se si pensa che solo qualche anno prima, nel 2015, dopo un anno di lavoro come consulente a far parte del think tank dell’allora Presidente Juncker, mi fu detto che dovevo smettere di parlare di sostenibilità e resilienza con una argomentazione perniciosa, che motivò il mio abbandono, e cioè che la Commissione non avrebbe mai abbracciato quei temi perché “non si può dire alla persone che il futuro è pieno di shock”.

Per questo iniziai a collaborare su questi temi, specialmente sulla resilienza come strategia politica complessiva, con il Joint Research Center della Commissione europea, dove abbiamo elaborato l’approccio alla “resilienza trasformativa” è poi stato adottato da von der Leyen dopo l’avvio della pandemia. Ed è così che la parola resilienza viene messa al centro delle politiche europee, guidando anche il disegno del Next Generation EU.

In realtà, già nel 2019, con il discorso al Parlamento europeo al momento della sua investitura, la Presidente aveva ripreso molte delle proposte contenute nel rapporto “Uguaglianza sostenibile” che avevamo scritto per il gruppo S&D per poi presentare poco dopo, nel 2019, il famoso Green Deal basato sul concetto di crescita sostenibile. Da quel momento la Commissione comincia a fare proposte molto ambiziose che, attraverso il dialogo con il Parlamento e soprattutto con i paesi membri, sono poi diventati atti legislativi. La svolta appare evidente se si pensa che mentre il piano Juncker di potenziamento degli investimenti aveva un approccio basato solo su crescita e competitività, il Green Deal è una strategia di sviluppo sostenibile, ma uno sviluppo economico, sociale e ambientale, non una semplice strategia ambientalista.

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Ma è chiaro che la trasformazione del nostro sistema socioeconomico, per poterlo rendere compatibile non solo con l’ambiente e rispondere alle legittime aspettative di benessere delle persone, non poteva non affrontare il tema delle politiche industriali. Per questo, le ultime iniziative, da un lato il rilassamento delle regole degli aiuti di Stato per quelle attività funzionali alla transizione ecologica, dall’altro la proposta di creare un nuovo fondo per la transizione industriale verso la sostenibilità, sono perfettamente coerenti con questa visione più complessiva. Non a caso, già nel mio libro “L’Utopia sostenibile” indicavo chiaramente la necessità di rivedere le regole degli aiuti di Stato proprio perché non si può trasformare il sistema economico e industriale basandosi unicamente sui capitali privati, così come non si riesce a realizzare questa trasformazione solo con i capitali pubblici.

In questo approccio fondamentali sono le nuove regole per la rendicontazione delle imprese sulla sostenibilità. Dal 2024, infatti, non solo le grandi imprese, ma anche le medie dovranno rendicontare sulla base della ‘Corporate sustainability reporting Directive’, una vera e propria rivoluzione copernicana per la sua pervasività (il numero delle imprese italiane obbligate a rendicontare passeranno da 400 a 4000, ma anche per lo stimolo ad una visione integrata dei processi produttivi, visto che le imprese dovranno rendicontare le emissioni lungo tutta la loro filiera. In pratica, non solo quanto si emette all’interno della fabbrica, ma quanto emettono anche i produttori delle materie prima e i sistemi di trasporto usati per l’approvvigionamento di queste ultime e la distribuzione dei prodotti finiti.

Si tratta di una trasformazione epocale se si considerano anche le regole che la BCE sta imponendo alle banche di indicare quanti asset di loro proprietà, in termini di prestiti fatti alle imprese, siano a rischio per il cambiamento climatico. Infatti, se una banca è molto esposta, per esempio sul settore del petrolio, questo costituisce un elemento di rischio che, nell’ambito della supervisione finanziaria, viene considerato una debolezza per il sistemo finanziario nel suo insieme. In effetti, investire su settori che sono destinati a una contrazione forte o ad essere ristrutturati può significare che quella banca potrebbe avere seri problemi in futuro, che possono diffondersi all’intero sistema.

Ma come mai, malgrado tutto questo, persistono molti dubbi e reticenze sia nell’ambito politico che nell’opinione pubblica internazionale, europea ed italiana?

Già 17 anni fa Sir Nicholas Stern pubblicò il primo rapporto sui costi dell’inazione di fronte al cambiamento climatico, sostenendo che la crisi climatica è il più grande fallimento del mercato nella storia dell’umanità. Perché è chiaro che i mercati non hanno scontato gli effetti dell’attività socioeconomica sul cambiamento climatico e hanno sopravvalutato il valore di una serie di attività: si pensi, solo per fare un esempio, ai prezzi delle case in riva al mare negli Stati Uniti dove, a causa dell’aumento dei fenomeni metereologici estremi (come gli uragani) il mercato, scontando finalmente la crisi climatica, ha determinato una forte riduzione del loro livello.

Ma nel passato i mercati non hanno visto arrivare tutto questo e per chi ha sempre creduto nel mercato, cioè nel fatto che il mercato potesse bastare a regolare tutto, questa presa di coscienza determina un vero e proprio cambio di prospettiva, quasi esistenziale. Questa considerazione forse aiuta a capire perché le destre, in tutto il mondo, hanno molti più problemi ad accettare l’urgenza del cambiamento e lo dico non perché le sinistre abbiano dimostrato di avere la forza di fare quello che bisogna fare, ancorché concettualmente per una persona di sinistra è più normale che il mercato non risolvere tutti i problemi.

E questo si applica anche in Italia?

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In Italia ci sono tantissime imprese che hanno fatto la scelta della sostenibilità e, i dati Istat lo dimostrano, grazie a questo crescono di più delle altre, creano più occupazione, sono più redditizie anche perché per trasformarsi in questo senso hanno avuto bisogno di un bell’investimento in innovazione. Ma esiste un problema di mancata comunicazione di questi risultati, da un lato perché le imprese che hanno investito nella trasformazione e stanno realizzando profitti non hanno nessun interesse a farlo sapere ai propri concorrenti. Dall’altro perché nelle organizzazioni imprenditoriali hanno molta più voce quelle imprese che chiedono protezione, che sono rimaste indietro e per questo chiedono continuamente di rinviare, limitare, rallentare per evitare di dover cambiare. Senza parlare di quelle imprese che sopravvivono solo facendo evasione.

C’è poi un problema culturale, mostrato da tutte le analisi demoscopiche. Infatti, i più resistenti al cambiamento verso la sostenibilità sono gli uomini ultracinquantenni, formati negli ultimi decenni ad un pensiero unico basato sull’economia liberista, i quali spesso occupano posizioni di potere, nel settore privato e pubblico. E questo vale anche per molti giornalisti. Non a caso, i media affrontano raramente la questione del cambiamento climatico e della sostenibilità in modo integrato con le dimensioni economiche e sociali, collegando per esempio la discussione sulla transizione verso auto non inquinanti alle 52.000 morti premature per cause legate all’inquinamento, oppure il cambiamento climatico alle migrazioni, o ancora le migrazioni alla scarsità di mano d’opera. Ora, capisco che i media tendono a semplificare questioni complesse, ma questi temi possono essere semplificati solo fino ad un certo punto.

Al contrario si sente molto parlare del problema della concorrenza dei mercati asiatici che hanno meno vincoli e sono più competitivi, cosa ne pensa?

In effetti, si parla tanto, per fare un esempio, delle terre rare e dei materiali con cui si costruiscono le batterie, ma nessuno dice che lo stesso problema si pone su tutti gli strumenti digitali. Le risulta che, per questo motivo, qualcuno diche che non dobbiamo più comprare i telefoni cellulari o i computer, che peraltro importiamo dagli stessi paesi che controllano le terre rare? Ovviamente, su questi temi lavorano molto le lobby resistenti a questi cambiamenti: basta pensare alle stime che sono state fatte sui soldi spesi da alcune compagnie petrolifere per influenzare le COP organizzate negli ultimi anni, dopo la COP21 di Parigi.

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