Erano i primi di Maggio e io mi stavo riprendendo da una brutta frattura al ginocchio che mi aveva tenuta a letto per un sacco di tempo. Avevo davanti tutta l’estate da godermi prima di trovare la prossima missione per la quale partire, quando un singolo messaggio ha sconvolto tutti i miei piani:

“Hey, stai seguendo cosa sta succedendo in Sudan?”

Certo che lo stavo seguendo.

Chi fa questo lavoro lo sa: anche se ti ripeti che quando non sei sul campo devi staccare, che devi riuscire a “goderti la vita”, una parte di te è sempre in pensiero per quello che succede nel resto del mondo e quando hai visto con i tuoi occhi gli effetti della guerra sulle persone, è veramente difficile non pensarci se sai che scoppia un conflitto da qualche parte. La verità è che lo sguardo di chi ha subito certi orrori non lo dimentichi facilmente.

Già dai primi giorni del conflitto in Sudan, la comunità umanitaria sapeva bene cosa sarebbe successo nei paesi confinanti e la missione Ciad di INTERSOS ha iniziato a prepararsi immediatamente all’arrivo di decine di migliaia di persone al confine orientale del paese. Sì perché se c’è una cosa che accomuna tutti i conflitti della storia, è che a pagarne le peggiori conseguenze sono sempre i civili. E il nostro mandato, come organizzazione umanitaria, rimane quello di occuparci di chiunque abbia bisogno, in maniera neutrale e imparziale.

Rifugio Mashra

Tra quel messaggio e il giorno in cui sono riuscita ad arrivare ad Est del Ciad, avevano passato il confine quasi 200.000 persone. Oggi, ad Est del paese, si contano quasi 360.000 rifugiati (dati UNHCR: CHAD UPDATE – SUDAN EMERGENCY 7 Agosto  2023), più o meno l’equivalente dell’intera città di Firenze.  Le province del Sila e del Ouaddai, che accolgono oggi la maggior parte dei rifugiati, erano già in una situazione di crisi umanitaria prima del conflitto dilaniante che ha colpito il Sudan e già ospitavano rifugiati sudanesi dalla crisi in Darfour del 2003. Questo non ha impedito alle autorità ciadiane e alle singole comunità rurali, 20 anni dopo, di cedere le proprie terre per la costruzione di campi rifugiati. 280 ettari solo nel caso del campo che stiamo costruendo noi a Zabout e che ospiterà almeno 40.000 persone.

 

Rifugi informali nel campo di Zabout

Questo nonostante il fatto che il conflitto in Sudan abbia avuto sul potere d’acquisto dei ciadiani un impatto devastante. Con le frontiere chiuse la maggior parte dei beni che prima arrivavano dal Sudan ora non si trovano più, e quelli che si trovano costano il doppio, il commercio transfrontaliero che alimentava questa zona del paese è stato totalmente azzerato e decine di migliaia di persone si ritrovano, improvvisamente, senza una fonte di reddito. Come se non bastasse le cliniche frontaliere in Sudan, alle quali i ciadiani si appoggiavano, sono anch’esse inaccessibili e quelle già malfunzionanti del Ciad ora devono coprire quei bisogni, più quelli delle migliaia di rifugiati che hanno attraversato la frontiera. Eppure, se aiutare o meno i “fratelli sudanesi” – come li sento chiamare qui – non è neanche argomento di conversazione. I campi costruiti nel 2003 vengono ampliati, nuovi spazi vengono forniti per costruirne di altri e il governo e le comunità locali partecipano attivamente alla risposta umanitaria.

Campo informale frontiera – Pronvicia di Ouaddai (Foto di Mariangela Molinaro – INTERSOS)

Noi, come organizzazione umanitaria, cerchiamo di fare la nostra parte. Io sono qui come capo progetto per supervisionare la costruzione del campo di Zabout: rifugi di emergenza, latrine e gestione dei rifiuti ma anche prevenzione degli incendi e delle epidemie. I bisogni non si fermano ad un tetto ed una latrina però, per quanto siano fondamentali. Per questo con INTERSOS stiamo implementando anche progetti di protezione per i più vulnerabili: fornendo supporto a chi ha subito gli orrori della guerra, a chi ha visto la propria casa distrutta, la propria famiglia uccisa, il proprio corpo violato. Cerchiamo di assicurare coabitazione pacifica tra le comunità, prevenire violenze di genere, identificare minori a rischio e supportare chi ne ha più bisogno. Ma servono anche acqua, cibo e medicinali; e mentre la comunità umanitaria corre per rispondere a questi bisogni urgenti, le persone continuano ad arrivare perché il conflitto in Sudan non accenna a fermarsi.

Camion sommersi dall’acqua nel tentativo di passare il Ouadi Batha nella tratta Abeche – Zabout

Inoltre, le condizioni meteorologiche non giocano a nostro favore: è arrivata la stagione delle piogge e trasportare il materiale è sempre più difficile perché lo stato delle strade viene impattato fortemente, gli ouadi (si tratta di corsi d’acqua che sono vuoti durante la maggior parte dell’anno ma che con le piogge si riempiono e diventano dei veri a propri fiumi invalicabili, possono riempirsi anche in pochi minuti e la corrente è molto forte). Si riempiono e l’unica cosa da fare è attendere che l’acqua scenda per poterli attraversare. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea stanno mettendo a disposizione elicotteri per trasporti di cargo ma non bastano per trasportare le tonnellate di materiale necessario alla costruzione di rifugi di emergenza. E mentre noi corriamo, cerchiamo strade alternative, lavoriamo di notte e sotto la pioggia, le persone continuano ad arrivare. E visto che le zone frontaliere sono più pericolose e più facilmente inondabili della zona dove stiamo costruendo il campo, vengono portate direttamente a Zabout dove aspettano, sotto la pioggia, accampate con i mezzi di fortuna e i teli che gli vengono forniti, il loro turno per avere un rifugio assegnato. Con tutti i rischi che questo comporta. Di situazioni drammatiche ormai posso dire di averne viste negli anni, ma i tassi di malnutrizione a cui stiamo assistendo sono incredibili e se non agiamo rapidamente le conseguenze sullo sviluppo dei bambini saranno permanenti.

Foto aerea del campo di Zabout in costruzione, Provincia del Sila (Foto di Mariangela Molinaro – INTERSOS)

Arrivi a piedi alla frontiera, Provincia del Sila

Prima di partire, raccontavo ad un amico quello a cui sarei andata incontro sia a livello professionale che personale: le condizioni di vita (non c’è elettricità, acqua corrente, varietà di cibo o una rete telefonica degna di questo nome dove mi trovo), la mole di lavoro, il contesto umanitario e le condizioni ambientali. La sua prima reazione dopo il mio racconto è stata chiedermi “ma chi te lo fa fare?”. Mentirei se dicessi che non me lo chieda anche io in alcune occasioni perché, quando fatichi a vedere i risultati nonostante tutti i tuoi sforzi e la stanchezza e la frustrazione prendono il sopravvento, anche il più appassionato degli operatori umanitari si chiederebbe “chi me lo fa fare”. Il bello di questo lavoro, però, è che la risposta è evidente. Almeno per me. Da quando sono arrivata qui si è diplomato mio fratello, hanno compiuto gli anni due nipotine e si è sposata una mia cara amica di infanzia. Da qui alla fine della mia missione avrò perso il compleanno del mio ragazzo, quello di tutti i miei fratelli, di un’altra nipote e della mia migliore amica, la festa di partenza della mia adorata vicina di casa, il Natale, e chissà quante altre cose. E devo sforzarmi di non pensare che, se dovesse succedere qualcosa che richieda la mia presenza a casa, mi ci vorrebbero (nella migliore delle ipotesi) 4 giorni per tornare.

Nima tra i rifugi informali nel campo di Zabout, Provincia del Sila

Però, quando vorrei lanciare il telefono sul muro perché non c’è rete da ore, quando vorrei lamentarmi perché non ne posso più di mangiare le stesse cose, quando penso a quello che mi sto perdendo a casa, quando ricevo l’ennesima chiamata che mi dice che il camion contente i kit di prima necessità è di nuovo bloccato nel fango e io mi sento inerme di fronte alle difficoltà, quando – essenzialmente – mi chiedo chi me lo fa fare, penso alle persone che incontro ogni volta che vado al campo.  (tutti i nomi, ad eccezione di quelli dei miei colleghi, sono di fantasia)

Penso a Mashra, che è arrivata con solo l’abito che indossa e che aspetta pazientemente il suo turno per avere un rifugio assegnato, anche se si ripara sotto a un telo (sotto il quale non c’è spazio neanche per sdraiarsi) e 4 rami incastrati con l’unico figlio che le è rimasto e che quando le dici “stiamo facendo del nostro meglio, ti prometto che avrai un rifugio presto” ti risponde “non preoccuparti, lo so che c’è chi ha più bisogno di me, e grazie per quello che state facendo, lo vedo che non vi fermate neanche quando piove”.

Penso a Omar, che avrà almeno 70 anni, che si è avvicinato alla mia squadra dicendo che non ha molta forza e che è un po’ stanco dal viaggio, ma se serve qualcosa a noi o alla comunità di Zabout che li ha accolti, di farglielo sapere perché lui è disposto a fare qualsiasi cosa gratis pur di mostrare la sua riconoscenza.

Fatima davanti a una delle tende fornite da INTERSOS

Penso a Fatima, incinta, che ha perso marito, fratello, genitori e cognata e che insieme ai figli e nipoti si è incamminata verso la frontiera e che, quando le chiedi quali di questi 4 meravigliosi bambini siano figli suoi, ti risponde che lo sono tutti. Penso a Ohuma, con cui non ci siamo scambiate una sola parola ma che si è avvicinata a me, evidentemente notando la mia fatica dopo ore sotto al sole, e che mi ha stretto le mani prima di mettersene una sul cuore. Grazie a te Ohuma, non sai quanto ne avessi bisogno in quel momento. Penso a Nima, 5 anni, che la prima volta che mi ha vista tra i rifugi informali è scoppiato a piangere e mi ha tirato un sasso prima di nascondersi dietro la madre, ma che l’altro ieri, quando mi ha rivista, si è fatto spazio tra gli altri bambini curiosi e si è avvicinato per offrirmi delle noccioline. Lui che è fortunato se mangia una volta al giorno.

Adam, staff INTERSOS, aiuta i beneficiari a scendere dal convoglio, Campo di Zabout

Penso ai miei colleghi ciadiani, ad Adam che ha studiato in Camerun e che a 26 anni potrebbe fare qualsiasi cosa vista la famiglia da cui viene, ma che ha deciso di fare il magazziniere per una ONG perché si sentiva di dover fare la sua parte in questa crisi e che, quando non ha da fare in magazzino, lo trovi ad aiutare le persone più anziane a spostare pacchi pesanti o a tirare giù bambini dai convogli “che sennò con questo caos si fanno male”. Penso a Mahmat, uno degli autisti che, anche se sa che deve riposarsi tra il viaggio di andata e quello di ritorno (la strada è molto impegnativa anche per un autista esperto come lui), e che la mia risposta sarà sempre la stessa, mi chiede comunque ogni volta se può fare qualcosa. Penso a Ngar, Coordinatore dei lavori, che ha una bambina di 9 anni a casa con cui a malapena riesce a parlare al telefono, ma che in ferie non ci vuole andare perché “prima li mettiamo tutti sotto un tetto, poi mi riposo”.

Quei numeri che finiscono nei report, nei database, nelle liste e negli articoli di giornale sono persone vere. Con storie, dolori e speranze. Sono persone che hanno vissuto orrori e violenze che non augurerei al mio peggior nemico e che se potessero scegliere di certo non vorrebbero stare nelle condizioni in cui si trovano adesso, ma quando rimanere significa morte certa, fuggire purtroppo rimane l’unica soluzione.

E se al posto loro ci fossi io, o se Ouhma e Omar fossero i miei nonni, Fatima mia sorella e Nima mio nipote, vorrei che ad aspettarli ci fossero degli operatori umanitari pronti a fare quanto necessario per dargli una mano.

Ecco chi me lo fa fare.

Tutte le foto sono dell’autrice e di Mariangela Molinaro