Dani Rodrik – Foto da wikipedia.org – CC BY-SA 3.0

Nel suo volume del 2017, “Straight Talk on Trade. Ideas for a Sane World Economy”, Dani Rodrik, Docente ad Harvard, metteva in guardia dai rischi che potevano derivare dallo spingere la causa della globalizzazione oltre i confini delle istituzioni che regolano, stabilizzano e legittimano i mercati, ribadendo quanto scriveva già venti anni prima: un’ ”eccessiva integrazione economica internazionale rischia di provocare la disgregazione domestica”. Probabilmente non siamo arrivati ad un’eccessiva globalizzazione dal punto di vista strettamente economico, così come non è detto che essa abbia raggiunto il massimo nel 2008, come sostenuto da molti, ma è sicuramente vero come ritiene Richard Baldwin che se la tesi secondo cui: “la globalizzazione ha raggiunto il suo picco” è di per se scorretta, dietro c’è una realtà effettiva. La globalizzazione dei mercati delle merci non è più in aumento come tra gli anni ‘90 e la metà degli anni 2000”.

Contemporaneamente sembra proseguire una forma di globalizzazione più silenziosa, quella dei servizi, trainati dalle diverse applicazioni tecnologiche, che sono meno facilmente identificabili quanto a nazionalità di produzione e anche più insidiosi dal punto di vista del rispetto di una corretta competizione. Ad esempio Alfhabet, Meta e Microsoft tra gennaio e giugno di quest’anno nel loro insieme, hanno fatto registrare 106 miliardi di profitti, ossia nove miliardi di dollari in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, e al contempo le quotazioni di borsa di questi tre gruppi stanno rapidamente raggiungendo i livelli massimi del 2021, mentre il loro fatturato da diversi anni sta crescendo a un tasso del 16% che non ha precedenti nella storia delle multinazionali statunitensi.

Tutto questo per sottolineare che la logica neoliberista, esclusivamente basata sul mercato come riferimento sia della competizione tra imprese che per quella tra istituzioni, non solo non ha portato a un contesto competitivo realmente più equo e meno diseguale, ma ha avuto contraccolpi molto pericolosi, che spesso vengono addossati alla globalizzazione in sé, mentre riguardano l’ideologia che muove le regole di questo processo.

La globalizzazione del secondo dopoguerra è il frutto più generale dell’affermazione di un capitalismo di stampo anglosassone/americano. La cultura alla base di questo approccio era quella individualistica, con forte caratterizzazione utilitaristica. Una cultura le cui radici sono riscontrabili nel pensiero di Jeremy Bentham, che ha avuto un profondo influsso anche sulla teoria economica, soprattutto nel trasformare il concetto di benessere in quello di utilità e quindi nel traslare un approccio economico basato sulla socialità del rapporto tra le persone in uno che comporta una relazione delle persone con le cose.

Foto di The Friedman Foundation for Educational Choice – RobertHannah89, CC0, commons.wikimedia.org

Questo approccio è stato teorizzato dal Premio Nobel per l’economia Milton Friedman come il principio centrale della forma di un nuovo ordine economico nel suo volume classico Capitalismo e libertà, in cui il fine ultimo di un sistema d’impresa è nel profitto e il libero mercato è il più perfetto meccanismo impersonale per conseguire questo obiettivo. I valori etici e morali sono importanti, ma rappresentano una integrazione (dall’esterno) di quelli economici. Anche il “sogno americano” si basava su questi principi, sotto molti versi esaltando forme di darwinismo sociale, che tendevano a ricompensare i migliori. Badiamo bene che questi principi – anche se contrabbandati come liberali – poco avevano a che fare con un genuino pensiero liberale, in quanto i punti di riferimento in questo campo, come Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Luigi Einaudi, non condividevano affatto una impostazione così estremista, anzi in più occasioni avevano evidenziato che i principi di libertà devono tener conto degli aspetti di equità. Se il mercato diviene un paradigma generale di riferimento allora il compito delle istituzioni è di favorire ovunque l’eliminazione di barriere al suo libero esplicitarsi, indipendentemente dai diversi contesti socio-economici e dalla cultura locale. Questo è avvenuto in larga parte dei paesi meno sviluppati dove le ricette del Fondo Monetario Internazionale sono state impostate ai canoni del cosiddetto Washington consensus, ossia un complesso di regole operative tutte basate sui principi di liberalizzazione, privatizzazione e riduzione delle barriere, per dispiegare potenzialmente le virtù imprenditoriali.

L’egemonia culturale americana in termini anche di modello di pensiero ha sostenuto questo approccio, malgrado da tempo gli osservatori più attenti come il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e lo stesso Dani Rodrik sottolineassero che non esiste una sola via per la prosperità, ma i paesi devono essere lasciati liberi di esprimere le istituzioni a loro più adatte e congeniali sulla base di modelli culturali molto diversi, così come hanno anche il diritto di proteggere le loro regolamentazioni e istituzioni, almeno in una fase di sviluppo nascente, prima che si giunga a un piena affermazione per il mercato.

Del resto questa è stata la strada che storicamente hanno seguito tutte le potenze industrializzate, anche gli Stati Uniti d’America dove il primo Segretario al Tesoro Alexander Hamilton fece passare un approccio decisamente “mercantilista” di tutela delle industrie che allora nascevano.

Sotto molti versi questo modello culturale neo-liberista è stato anche alla base della impostazione per lungo tempo della politica di concorrenza dell’Europa.

E’ almeno della crisi del 2008 che le crepe in questa concezione si sono manifestate sempre più forti ed è significativo che queste siano andate di pari passo con la perdita di smalto dell’egemonia culturale statunitense: negli ultimi dieci anni sono cresciute le misure di restrizione al commercio internazionale e oggi per ogni misura di liberalizzazione ne sono introdotte tre di protezione, con una tendenza che sembra destinata a crescere. L’appannarsi dei principi egemonici neoliberisti di stampo americano e le repentine crisi extra-economiche degli ultimi tre anni, con i connessi effetti di ordine politico, ci spingono a costruire un modello di governance diverso in cui favorire più gli aspetti di democrazia riferiti a singoli contesti che l’acritica accettazione della supremazia di un libero mercato ovunque.

Ma allora non è il percorso di globalizzazione che è in crisi in sé quanto la necessità di ricostruire uno schema di collaborazione win win, accettando la diversità che viene dal riconoscimento delle peculiarità nazionali, perché come, ci ricorda Carlo Cottarelli nel suo ultimo volume sui sogni e fallimenti dell’economia “la soluzione ai rischi geopolitici (che oggi vanno sempre più crescendo) non è l’autarchia… anche perché è improbabile una deglobalizzazione che porti il mondo a com’era quaranta anni fa”.

Il punto è se però saremo capaci di esprimere una diversa consapevolezza e capacità collettiva al riguardo. Questo vale anche per l’Europa, dove è attualissimo quanto scriveva Ralf Dahrendorf nel 1992 (oltre trenta anni fa!): “L’Europa non può essere che uno spazio comune di diverse appartenenze etniche, religiose e culturali: voltare le spalle all’idea di questo spazio comunque significa inevitabilmente l’intolleranza all’interno e l’ostilità all’esterno […] abbiamo bisogno dell’Europa, ma di un’Europa della quale poter essere fieri […] altrimenti diverrà prima una questione infelice e fonte di divisioni, poi darà origine a nuovi conflitti sempre più intricati e infine perderà ogni rilevanza per essere soppiantata da altre forze assai meno auspicabili”. Le vicende che stiamo sperimentando da un anno e mezzo purtroppo sembrano avergli dato ragione.

Foto di apertura: Gerd Altmann da Pixabay