Il titolo di questo articolo è una variante della citazione di Ernesto «Che» Guevara «due, tre, molti Vietnam», usata da Guevara per esprimere l’idea che la lotta rivoluzionaria, violenta e implacabile, avrebbe dovuto diffondersi in molti Paesi e regioni, allo stesso modo di quanto stava accadendo in Vietnam.

Ernesto Che Guevara con Kwame Nkrumah in Ghana nel gennaio 1965, Wikimedia Commons

In altre parole, egli intendeva sottolineare che la rivoluzione non doveva essere limitata a un solo Paese, ma avrebbe dovuto estendersi a più luoghi in tutto il mondo. L’idea fondamentale era quella di creare numerosi focolai di lotta e resistenza contro l’oppressione e l’imperialismo, con l’obiettivo di fiaccarne la capacità di risposta e disarticolarne il sistema di potere. Sappiamo come finì la sua avventura.

A distanza di molti anni, l’incandescente attacco di Hamas a Israele suona come un sinistro richiamo a quell’epopea rivoluzionaria. O meglio, apre a una considerazione strategica che, valutata per tempo in tutti i suoi fattori, avrebbe forse evitato di produrre quella lacerazione internazionale che oggi attraversiamo.

Avevo già scritto nel mio precedente articolo Confronto globale: «… cosa potrebbe accadere se una guerra con un alto utilizzo di armamenti come avviene in Ucraina divampasse anche in un altro scenario geografico? L’Occidente potrebbe sostenere un simile scontro?». E oggi aggiungo: quanti potrebbero essere questi nuovi fronti?

A oltre un anno dall’invasione dell’Ucraina, oggi il Medio Oriente è di nuovo un pericolosissimo fattore di destabilizzazione nella contrapposizione tra Israele e la Palestina, che potrebbe innescare una crisi ancora più ampia tra l’Occidente e i Paesi arabi.

L’attacco è avvenuto nel momento in cui, nel processo di normalizzazione tra Israele e le nazioni arabe avviato con gli accordi di Abramo, si stava per inserire l’Arabia Saudita, il Paese guida dell’Islam sunnita, una scelta non condivisa dai movimenti musulmani più radicali e che vede nell’irrisolta questione palestinese la contraddizione più evidente.

Ma è anche evidente il legame tra alleati di due mondi contrapposti: da una parte l’Occidente, in primo luogo gli Stati Uniti, con l’Unione Europea e Israele, dall’altra la Russia con l’Iran e buona parte del mondo arabo, che da tempo non vede più nell’Occidente un interlocutore privilegiato.

Murale sulla barriera di separazione tra Israele e Cisgiordania, anche detta muro dell’apartheid, foto di Ziad El Shurafa, Wikimedia Commons

Quale credibilità possono inoltre avere, nel gioco di potenze emergenti, accordi tra Israele e Paesi arabi, che a loro volta hanno iniziato una sorta di saldatura tra le componenti sunnita e sciita (quindi con l’Iran sciita, che a sua volta sostiene il sunnita Hamas) avviata sotto l’egida della Cina? La Via del Cotone, alternativa anglo-americana alla Via della Seta cinese, non dovrebbe forse passare da Israele?

Ora dobbiamo augurarci che nell’Estremo Oriente (o, perché no, in America latina?) non si aprano altri teatri di guerra, ma allo stesso modo dobbiamo sperare che la reazione di Israele non sia quella della distruzione fisica di Gaza e che l’Occidente non veda nel nuovo conflitto il pretesto per saldare i conti con l’Iran, di fatto una trappola per Israele e per il mondo intero.

La divisione della Palestina venne teorizzata fin dal 1937, durante la Grande Rivolta Araba (1936-1939) alla vigilia della seconda guerra mondiale, progetto che verrà poi riassunto nell’espressione «due popoli due Stati» e ha rappresentato da allora l’unica soluzione possibile della questione palestinese.

Ma i successivi piani di spartizione, accordi e conferenze internazionali, complicati dalle quattro guerre arabo-israeliane, non sono approdati a nient’altro che alla provvisoria definizione della presenza palestinese nella striscia di Gaza e in Cisgiordania e al riconoscimento nel 2012, da parte di 138 Paesi, dell’Autorità Nazionale Palestinese come Stato osservatore non membro dell’ONU.

L’attuale conflitto non sarebbe quindi solo la seconda crisi senza uno sbocco diplomatico dopo la guerra in Ucraina, ma anche una via senza ritorno sulla strada del processo per una pace stabile in Medio Oriente, che sia frutto non solo dell’iniziativa delle élite, spesso ambigua, ma dell’autentica condivisione di un’opinione pubblica ai margini delle decisioni dei governi.

Immagine di apertura: La località di Sinjar in Iraq, luogo nel 2014 del genocidio yazida, immagine di Levi Meir Clancy, Unsplash