Più di 20 conflitti ad alta intensità, ma oltre 350 aree di crisi. Non sarà ancora guerra mondiale, ma il mondo è in fiamme. E ognuna di queste lingue di fuoco, come ci ricorda il Doomsday Clock (L’orologio dell’Apocalisse), potrebbe potenzialmente scatenare quello che non vorremmo.

Esercitazione dell’Armata Russa al confine con l’Ucraina, febbraio 2022, Wkimedia Commons

Mente e cuore da ormai un anno corrono alla guerra russo-ucraina, un conflitto in Europa alle porte di casa nostra. Anche se abbiamo già conosciuto tra il 1991 e il 2009 la cruenta serie delle guerre iugoslave, i conflitti in Cecenia e in Georgia. Tutti questi eventi hanno nuovamente esacerbato l’antitesi Ovest-Est. E se l’equazione Ucraina-Taiwan non è ancora evidente nei fatti, forse lo è già nelle premesse, malgrado un confronto diplomatico tra Cina e Stati Uniti per ora improntato a prudenza.

Ma cosa potrebbe accadere se una guerra con un alto utilizzo di armamenti come avviene in Ucraina divampasse anche in un altro scenario geografico? L’Occidente potrebbe sostenere un simile scontro?

Le guerre nel mondo

Un conflitto civile infinito devasta dall’inizio degli anni Novanta il Congo, alimentato con le risorse del sottosuolo, utili per comprare le armi: coltan e cobalto, i minerali che servono alla nostra tecnologia, vengono estratti a caro prezzo.

I signori della guerra nelle loro scorribande procurano la forza-lavoro per le miniere: adulti, ma anche bambini, maschi e femmine, quando non vengono anch’essi usati per combattere o alimentare il traffico internazionale della pedofilia.

Il conflitto siriano è iniziato nel 2011 a cavallo delle «primavere arabe» e ha lasciato una scia di sangue che da allora dura ininterrotta, dando luogo a una guerra civile senza tregua, che ha causato più di 570.000 morti e favorendo la formazione dell’Isis, uno Stato nello Stato fondato su un Islam violentemente radicale contrapposto al governo centrale di Assad al pari di un’altra formazione, l’Esercito Siriano Libero.

Forze straniere, Stati Uniti e Inghilterra, Turchia e Arabia Saudita a supporto delle forze ribelli, Russia e Iran a difesa di quelle governative, sono intervenuti militarmente nel conflitto, questi ultimi riuscendo ad assicurare la riconquista di larga parte del Paese da parte del governo di Assad, pur condividendo con gli occidentali la guerra all’Isis.

La guerra civile in Yemen è iniziata nel 2015, con una popolazione presa tra l’incudine del governo centrale appoggiato dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti e il martello delle forze ribelli appoggiate dall’Iran.

Nonostante la tregua raggiunta nel 2022 tra le parti in lotta, il Paese atraversa tuttora la più grave crisi umanitaria mondiale, con circa 18 milioni di persone che soffrono la fame. Ma è stato anche un affare per l’apparato militar-industriale americano, infatti tra il 2015 e il 2021 gli Stati Uniti hanno fornito addestramento militare, inviato truppe sul terreno e oltre 54 miliardi di dollari in armi e servizi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per condurre una guerra in uno dei Paesi più poveri del mondo.

In Etiopia, terra di confronto tra Cina e Stati Uniti, il conflitto tra il governo e l’alleata Eritrea e i combattenti del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray è iniziato alla fine del 2020 e dal luglio 2021 si è allargato ad altre regioni settentrionali del Paese.

Gli osservatori internazionali hanno denunciato un’azione di pulizia etnica, con massacri, esecuzioni, violenze sessuali e arresti arbitrari da ambedue le parti. Gli aiuti delle organizzazioni umanitarie hanno raggiunto quasi 17 milioni di persone nel Paese.

Potremmo continuare con Somalia, Mozambico e Mali, dove la guerriglia jihadista miete migliaia di vittime, o con il conflitto etnico in Sud Sudan.

Ma non sono tranquille le repubbliche ex-sovietiche, viste le perenni contese tra Azerbaijan e Armenia e tra Tajikistan e Kirghizistan.

Dimostrazione contro il PKK, ottobre 2007, Turchia, Wikimedia Commons

Il conflitto turco-curdo è forse il più vecchio scenario di guerra al confine tra Europa e Asia. Affonda nel 1920 ma inizia nella sua forma più recente dopo la fondazione nel 1978 del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), causando la morte di almeno 50.000 persone, mentre tra i 70.000 e i 150.000 curdi risultano scomparsi.

Abbiamo parlato delle guerre «attive», ma dovremmo anche parlare dei conflitti «latenti» o «in sonno», come quelli eclatanti tra Turchia e Grecia, Corea del Nord e Corea del Sud, Iran e Israele, India e Pakistan. Le aree di crisi sono in realtà innumerevoli e tutte potenzialmente temibili.

Gli equilibri geo-politici e le alleanze

La caduta dell’URSS, con l’affermazione di un centro di potere unipolare e un multilateralismo a guida americana, ha al contrario inaugurato una nuova divisione del mondo in due blocchi che hanno inteso affermare due visioni antitetiche.

La prima, promossa dagli Stati Uniti, dall’Europa e in generale dall’Occidente, è la contrapposizione politica e ideologica tra democrazie e autocrazie; la seconda, rappresentata dalla Cina e dalla Russia, è la contrapposizione tra un’egemonia occidentale in declino e un Sud del mondo popolato di Paesi emergenti (India, Brasile e Sudafrica).

La strategia americana è ben rappresentata da un organismo che ha informato la politica estera degli ultimi decenni, il Project for the New American Century (PNAC), think tank istituito nel 1997 da scrittori ed esperti neoconservatori di rilievo con il compito di assicurare l’affermazione della leadership globale degli Stati Uniti attraverso la promozione della democrazia e dei diritti (con metodi discutibili come l’esportazione della democrazia o le rivoluzioni colorate), l’iniziativa economica (G7, G8, G20, WEF) e quella militare, sempre più difficile per la qualità e la quantità di risorse impegnate.

Operazione della coalizione occidentale per arrestare un capo talebano, distretto di Nahr-e Saraj, provincia di Helmand, Afghanistan, agosto 2012, Wikimedia Commons

Ogni iniziativa militare successiva si è basata su questa mission, dall’intervento nei Balcani a quelli in Afghanistan e Iraq, alle primavere arabe, all’allargamento della Nato in Europa, processo che non ha certamente contribuito a raffreddare la tensione nel continente ma ha portato a un sempre più marcato irrigidimento delle relazioni con Mosca. E che in prospettiva, se verrà dato seguito al progetto di allargare la Nato all’area del Pacifico, non potrà che aumentare la tensione anche nel continente asiatico.

La Rand Corporation, un altro centro del pensiero strategico americano, nel 2019 ha addirittura elaborato un piano per provocare una sovraestensione e quindi un ridimensionamento della Russia, e c’è chi a Ovest pensa che sia possibile far implodere la Russia e stabilire il post-guerra ucraina facendo a meno dell’odiato contendente. Un promemoria ufficioso dei comandi militari americani prefigura addirittura  un conflitto con la Cina nel 2025.

Specularmente, nel campo opposto, Cina, Russia e nazioni emergenti hanno rinsaldato sempre più strettamente le proprie relazioni politiche ed economiche attraverso la formazione di organismi internazionali come la Shanghai Cooperation Organization (SCO) e i BRICS, e con la ricerca di una cooperazione finanziaria in grado addirittura di contrastare la supremazia del dollaro.

Dal punto di vista militare, questi Paesi hanno intensificato la collaborazione nei settori della produzione di armamenti e dell’intelligence e avviato una serie di manovre congiunte che hanno visto la partecipazione di due o più Paesi in diverse aree dell’Europa e dell’Asia.

Ognuno dei due campi ha a sua volta una certa forza attrattiva, il blocco occidentale sui Paesi che ne condividono da sempre istituzioni ed economie, quello eurasiatico (così potremmo chiamarlo) su molti Paesi con brillanti economie emergenti o in via di sviluppo, che hanno conosciuto in passato una forte e spesso drammatica dipendenza dall’Occidente.

Soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione sfilano durante la visita del generale dei Marines Peter Pace, Ministero della Difesa, Pechino, Cina, marzo 2007, Wikimedia Commons

Poi vi sono i Paesi «equidistanti», quelli che cercano di trarre dalla situazione attuale il massimo vantaggio con il minimo sforzo: la Turchia, che fa parte della Nato ma coltiva ottimi rapporti sia con la Russia sia con l’Ucraina, l’India, che partecipa a manovre militari sia con la Russia e la Cina sia con il Giappone, e il Brasile, che sebbene sia collocato nel campo occidentale è un componente di rilievo dei BRICS e si è rifiutato di applicare le sanzioni economiche contro la Russia, indipendentemente dal fatto che sia governato dalla destra o dalla sinistra.

Più difficile l’equidistanza per la Cina e più certo il coinvolgimento con la Russia, per la presenza della tensione strisciante con Taiwan e del tentativo di accerchiamento nel Pacifico da parte degli Stati Uniti, che stanno cercando di creare intorno al gigante asiatico un cordone sanitario di Paesi fedeli.

La pace è possibile?

Fin qui siamo allo stato di fatto. Ma anche se non prestassimo fede all’espressione di Mao «Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è eccellente», dobbiamo riconoscere che almeno la prima parte di questa frase è (forse da sempre) realtà, per la seconda parte possiamo arrivare alla conclusione che se uno status quo non è mai eterno, il modo per stabilire un ordine differente non è quasi mai indolore, come dimostrano le due crisi parallele di Ucraina e Taiwan.

E in un mondo globalizzato come quello odierno è difficile immaginare quali alleanze potrebbero formarsi in presenza di una conflittualità sempre più generalizzata con molteplici interessi in gioco. Lo abbiamo già visto nella prima e nella seconda guerra mondiale – e soprattutto nel caso della prima le analogie con la situazione attuale sono evidenti – nelle quali diverse furono le alleanze inaspettate e i cambiamenti di fronte, prima e nel corso della guerra, e questo non determinò certo un esito meno cruento dei due conflitti.

Sun Tzu, Collezione dei dipinti, Dinastia Qing, Pechino, Wikimedia Commons

Come prevenire il peggio richiederebbe quella razionalità e quella moderazione che è sempre mancata a chi ha combattuto le guerre, incurante della massima di Sun Tzu, teorico militare cinese del VI secolo a.C., che affermava: «La vera vittoria è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un ulteriore conflitto». Molti protagonisti dei conflitti degli ultimi anni, che siedono in posti di comando, dovrebbero tenerne conto.

Il mondo non è più quello di Yalta, ma nemmeno quello dell’89, prima ne prenderemo atto prima potremo gestire un’instabilità internazionale che potrebbe gettarci nella più rovinosa delle avventure, con gli armamenti attuali senza vie d’uscita per il genere umano.

Non ci illudiamo certo che si possa eliminare la guerra in eterno, ma la ragione – seppure le vicende passate affermino il contrario – ci dice che è possibile contenerla, anche se la tensione si alza, anche se la diplomazia balbetta, anche se in apparenza l’ego umano è inversamente proporzionale alla sua intelligenza.

E ancora una volta ci chiediamo quali siano la visione e la responsabilità dell’Europa in questo tempo di guerra, se non affermare vigorosamente la superiorità della ragione sulla tentazione della follia. Mancano novanta secondi allo scoccare del giorno del giudizio, utilizziamo bene il tempo che ci resta.

Immagine di apertura: Pieter Paul Rubens, Le conseguenze della guerra, 1637-1638, Firenze, Galleria Palatina, Wikimedia Commons